Tuttavia gli era rimasto un marchio indelebile. Quel perdersi segreto, quella camminata misteriosa per territori altrettanto misteriosi, sarebbe stata la sua legge di gravità. (..) Non lo avrebbero più trovato. Adesso aveva davvero abbandonato la zia Elsa. Fu allora che si presentò il senso di colpa. (..) La colpa era arrivata per rimanere nascosta fra le pieghe dei suoi battiti cardiaci, nelle sfumature dei suoi pensieri: la lucidità distante e vagabonda che Roque avrebbe coltivato negli anni a venire avrebbe avuto il suo segreto in quella colpa, e nel cuore di quella colpa ci sarebbe stata la zia Elsa, irraggiungibile.

Storia di Roque Rey, di Ricardo Romero, Fazi editore 2017, traduzione di Vittoria Martinetto, pagg 526

Roque Rey è un incrocio tra certi personaggi dickensiani e il pícaro della tradizione spagnola, entrambi proiettati nel Ventesimo secolo, non assomigliando completamente a nessuno dei due eppure richiamandone alcuni tratti. È un personaggio apparentemente semplice, a cui non accadono fatti eclatanti ma che, come un camaleonte, cambia continuamente i suoi colori e vive tante vite diverse, ogni volta adattandosi all’ambiente in cui si trova. Un personaggio che, con il suo vagabondare e il suo piglio meditabondo, pone il lettore di fronte a molte domande che hanno a che fare con quell’insondabile e sdrucciolevole terreno che è il senso della vita. E lo fa a suo modo, da personaggio letterario sud americano, muovendosi su un trasfigurato piano cartesiano dove le ascisse sono i chilometri che macina, e le ordinate le persone che si lascia indietro. La funzione che ne esce disegnata non è altro che una spirale logaritmica che tende all’infinito.

Di nuovo la perfezione, e la perfezione è questa: il dolore è così grande da avere le dimensioni esatte del paesaggio.

Una delle chiavi di lettura della vita di Roque Rey è l’abbandono. L’atto di abbandonare e la condizione che ne consegue, sono il marchio che il piccolo Roque riceve come dono alla nascita: il padre sparisce ancora prima che lui venga al mondo, e la madre, sorpresa dal suo affacciarsi alla vita come se non ne avesse il minimo sospetto, lo abbandona nelle mani della sorella e del marito per sparire per sempre. E, a dodici anni, alla morte dello zio Pedro – da cui Roque eredita lo sguardo obliquo e le spalle voltate al mondo – sarà lui a calzare le scarpe Guante che la zia aveva tenuto in serbo per l’occasione. Scarpe destinate al viaggio nell’aldilà dello zio e che invece accompagneranno Roque nel viaggio della vita, “vagabondo insonne”, “serpente che cambia pelle”, in lungo e largo per l’Argentina, un viaggio circolare, in compagnia di molti personaggi che hanno come una specie di data di scadenza, nel senso che, dopo un po’, Roque li abbandona tutti. O viene abbandonato da loro.

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Appena fuggito da casa, Roque incontra il prete Umberto e con lui sale su un autobus per lasciare definitivamente Paraná. Il prete è un parricida che, sotto mentite spoglie, è divenuto un prete. Sarà una vicinanza breve, ma per molti anni Roque continuerà a leggere le lettere che padre Umberto aveva scritto alla madre dal carcere. Più lungo e articolato sarà il rapporto con “Los Espectros”, un gruppo di musicisti che gira il paese suonando cumbias infilati nei loro improbabili completi turchesi. E ascoltando i Pink Floyd nei momenti di pausa. Con loro, Roque scopre il suo talento di ballerino e da loro acquisisce l’amore per la musica. Ma abbandonerà anche il gruppo, perché certe cose nascono e poi finiscono, e allora è tempo di rimettersi in strada e di affrontare la grande città, Buenos Aires. Perché Roque ha ereditato qualcosa dal padre:

Anche lui aveva quell’intemperanza data dalla disperazione, un’urgenza di intemperie. Ecco il tratto paterno: era incapace di fermarsi da qualche parte. Sarebbe tornato al nulla da cui era sbucato.

Alla pensione della signora Hermenegilda, conosce Marcos Vryzas, ma anche questo incontro terminerà con un abbandono. Dopo molti giri su se stesso battendo le vie della città, entra in una vita nuova. A casa della moglie e della figlia di Gallardo – uno dei membri de “Los Espectros” – ci rimane per un bel pezzo, conoscendo per la prima volta il senso della parola innamorato. Lui, è innamorato, e forse è anche ricambiato, ma la vita non assume mai un andamento lineare né un assetto di reciprocità. O se lo fa, non è per sempre. A Baires, Roque diventa un altro sé, che come un fantasma – e non poteva che essere questo – si aggira nei meandri dell’obitorio Giudiziario, un luogo tristemente affollato, come un terminal di autobus, dove però si arriva con un viaggio di sola andata, in orizzontale, ammaccati. Perché questi sono gli anni della dittatura di Videla. Uno spettro sinistro che avvolge la città, che entra nella vita di Roque attraverso la contabilità dei morti, volti senza nome – tranne uno – di cui lui indossa le scarpe e si lascia trasportare di nuovo per le vie della città, a ridare un passo e un senso a sparizioni che di senso ne hanno uno solo, la repressione.

Solo per rispetto, Roque non toccava i margini delle ferite da proiettile, gli ematomi che deformavano i volti. Su quei volti la paura sembrava la stessa che assaliva gli addetti dell’obitorio quando dovevano avere a che fare con loro. C’era, fra i volti dei corpi violentati e quelli degli addetti, un’intesa che Roque intuiva ed evitava: in quel segreto, in quello scambio inafferrabile di ruoli, c’era un traffico di terrori, una sostanza inquieta che non si decideva a trovare posa. I morti della città arrivavano lì con messaggi incontestabili ed ermetici di quanto accadeva per le strade, nelle case, negli edifici, e l’unico testimone che trovavano era Roque, allucinato e pressato da altre verità.

Ed è qui, in questo luogo, che Roque viene attirato nella trappola perfetta, una sfida lanciata da una undicenne manipolatrice e perversa che lo spinge ad un’altra fuga, dopo avere abbandonato l’ultimo simulacro del suo amore sterile per Mariana Gallardo.

Arriverà a Diamante, sulla sponda orientale del fiume Paraná, e “Roque la riconobbe come un’eco del proprio passato. Nella sua infanzia, Diamante era stato un luogo nella frontiera della sua concezione del mondo”. E qui inizia una nuova, ennesima vita, che non potrà che finire nel solito modo. Con due abbandoni, ma questa volta volta sarà Roque ad essere lasciato solo. A Diamante trascorre molti anni, raggiungendo una stabilità anche d’affetto, che però, come era prevedibile, sarà ostacolata dal destino. E quindi non rimane che rimettersi di nuovo in viaggio: il romanzo si chiude allacciato alle pagine di apertura, in un effetto circolare, di viaggio intorno ad un unico e solo possibile centro di gravità permanente (e mi perdono Battiato, ma la citazione calza), perché:

Bisogna fare il giro del mondo per vedere se stessi di spalle mentre si cammina.

Un lungo romanzo popolato da personaggi ambigui, primi fra tutti il criptico Roque. Una storia dove abbandono, fuga, morte e domande irrisolte sono gli ingredienti principali. Dove si è sempre in bilico tra il realismo magico sudamericano e il claustrofobico assurdo kafkiano. Sullo sfondo, echi della storia argentina, dagli anni Settanta all’inizio del nuovo secolo; anni violenti e sanguinari perché, come dice Roque, la storia è femmina e a intervalli regolari, sanguina.

Personalmente, ho tenuto dietro a Roque Rey senza potermi staccare da lui; ho sentito i suoi pensieri rotolarsi l’uno sopra l’altro, a volte avanzando piano, altre ruzzolando in picchiata, e schiantarsi con un rumore fragoroso. Sulle strade che ha percorso mi sono tenuta un passo indietro, con lo sguardo fisso alle sue scarpe, senza sapere dove mi avrebbero portata, ma godendo del viaggio. Perché l’importante non è trovare tutte le risposte, ma farsi tante domande, anche quando sappiamo benissimo che potrebbero non avere una sola e precisa risposta, o semplicemente perché, come Roque Rey, non abbiamo nulla da dire.

«Qualcuno sa dove si trova Penny Lane?» domanderà Roque.

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Nato a Paraná nel 1976, Ricardo Romero vive a Buenos Aires ed è una delle voci più interessanti della letteratura argentina odierna. Ha diretto la rivista letteraria «Oliverio» e attualmente è editor per Gárgola Ediciones. Ha pubblicato una raccolta di racconti e cinque romanzi.

 

 

 

Potete leggere l’incipit qui. E se volete sapere di chi è la bellissima copertina, leggete qui.