Sono qui, da solo, ad affrontare me stesso e la mia personale combinazione di eventi, mentre le altre non le potrò mai sperimentare. E ad affrontare le storie che ho evocato, ad affrontare le monete lanciate da altri. Quando ho messo l’annuncio, non potevo nemmeno immaginare di quali tragedie sarei venuto a conoscenza. Ci sono state, naturalmente, anche coincidenze belle, o altro comiche, ma non ero pronto per tanto dolore. (pag. 189)

Noi diversi, di Veselin Marković, Voland editore 2019, traduzione di Anita Vuco, pagg. 397

Il romanzo di Marković fornisce già nel titolo il leit motiv che fa da ossatura alla narrazione, presentata fin dai due prologhi in apertura come un viaggio su due binari paralleli. Due protagonisti, un uomo e una donna, che in prima persona raccontano al lettore le loro rispettive vite, i loro ricordi, i loro pensieri che, messi in fila e ripercorsi in modo dettagliato, affrontano il tema della casualità, e delle probabilità che rendono diversi dagli altri, e per questo, soli.

Chi è protagonista, su milioni di persone, di una possibilità che, seppur prossima allo zero, può comunque verificarsi, come si sente? Diverso? Sfortunato? Deve forse accettare che ci sono leggi, quelle appunto delle probabilità, a cui non si può che arrendersi e accettare il proprio destino?

Il protagonista maschile, Vladimir, è un laureando in matematica che sta preparando una tesi sul calcolo probabilistico, e questo funge da pretesto narrativo per introdurre il tema della teoria delle probabilità, il collante che unisce i due protagonisti, in un incontro di diversità, di destini particolari. Egli, infatti, sta conducendo una ricerca sui casi che mostrano, nella vita reale delle persone, l’accadere di eventi fuori dall’ordinario; ha pubblicato un annuncio in cui chiede a chiunque lo desideri, di raccontargli la sua storia.

La protagonista femminile, Valentina, risponde al suo annuncio, recandosi nel suo studio per esporre il suo caso. Lei lavora alla stazione di polizia: era stata assunta all’ufficio relazioni col pubblico, ma poi si era ritrovata all’archivio, a registrare vecchi casi. È nata senza un gene che rende impossibile la trasformazione della bilirubina da parte del fegato, e che le provoca il fatto di avere la pelle del corpo giallastra. Una condizione esteriore che suscita curiosità, a volte invadenza, in chi la osserva, e che la mette spesso a disagio e la costringe ad inventarsi mille espedienti nello scegliere i colori degli abiti, o nello scegliere i percorsi da fare quando esce per incontrare meno persone possibili. Oltre a questo, la malattia crea scompensi agli organi interni, danni che possono accorciare sensibilmente la durata della vita.

Esistono segni che possono annunciare il tragico epilogo di quella che è una normale esistenza? Ed è forse possibile coglierli, oppure non possiamo in alcun modo prevedere cosa potrebbe accadere, e accettare che tra tante insignificanti coincidenze ce ne possa essere anche una fatale?

La narrazione si sviluppa su piani alterni: presente/passato, lui/lei. Ognuno dei protagonisti, nell’incedere del presente, torna continuamente indietro, a cercare nel passato segni o indizi che possano spiegare i traumi che li hanno segnati, e che hanno determinato il loro destino. Si ravvisa in entrambi l’esigenza di cercare razionalità e ordine in quello che invece appare oppresso dal disordine; un’esigenza primaria, per loro, per non soccombere al dolore che la diversità che si sentono addosso li schiacci definitivamente.

La nostra mente si rifiuta di vedere il vuoto, e lo riempie con ciò che le sta più vicino. Nello stesso modo inventa storie e teorie. Cerca di costruire sistemi, di dare un senso al mondo. E tutto è solo un grande punto cieco, che a un certo punto oscurerà il mondo intero. (pag. 165)

Grazie alle descrizioni dei luoghi che hanno fatto e fanno da sfondo alle loro vite, la narrazione regala pagine di sorprendente lirismo: arrivano con forza al lettore le atmosfere, i colori, le brume, i giochi di luci e ombre in continuo divenire sugli alberi, sul lago, sulle case. Un palpitante microcosmo naturale che avvolge i protagonisti e riesce a trascinare dentro il lettore, fino quasi a farlo sentire parte del racconto.

Ed ancora. C’è una forte tensione, come un’urgenza che spinge a leggere le pagine per capire cosa possa scaturire a valle di quei due prologhi iniziali. Il primo, relativo a Vladimir, esordisce con la frase “Pensavo che quello fosse un segno”, che subito mette in allerta, per continuare con il continuo richiamo ai segni, premonitori, presaghi di qualcosa di tragico che potrebbe accadere. Non inganna infatti la bucolica descrizione del suo mondo perché le sue sensazioni – “mi sembra che la nostra casa, insieme a tutti i suoi inquilini, ogni notte venga imprigionata” – portano il lettore in tutt’altro territorio, e lascia intuire che qualcosa di poco piacevole dovrà accadere.

Tensione che viene preannunciata anche nel secondo prologo, quello relativo a Valentina, che, bambina, si reca tre giorni alla settimana in ospedale per sdraiarsi su un lettino inondato di luce blu.

Questo riflesso tremolante oscilla tra diverse tonalità di blu, smeraldo e verde scuro. Lo fisso incantata, proprio come un momento prima fissavo la lampada, con la paura di poterlo perdere da un istante all’altro; è così fragile che un solo movimento incauto potrebbe distruggerlo. (pag.13)

Sia Vladimir che Valentina attingono continuamente ai loro ricordi, il primo cercando di ricostruire un momento ben preciso, lontano nel tempo dell’infanzia, ma che ha cambiato tutto; la seconda, in un passato più recente, ricostruendo una vecchia indagine, per dimostrare che le sue capacità non sono ancora state destabilizzate dal corso della malattia.

Che lingua parlano i ricordi allora – quella di un tempo, o quella del presente? Se parlano con la lingua del presente, come posso fidarmi di loro? Sono le parole a creare le immagini. La lingua cambiata ha cambiato anche le immagini originarie? Forse – dal momento che oggi so come si erano svolte le cose – ho trasformato inconsciamente i miei ricordi, in modo da adattarli a quei presunti segni? (pag.134)

Ma è poi affidabile il nostro sguardo rivolto al passato? Ricordiamo con precisione, o vestiamo i nostri ricordi di sentimenti che si sono sviluppati in seguito? Questo interrogativo accomuna lo scavo interiore che entrambi i personaggi conducono su se stessi e su cui poggia largamente l’impianto narrativo. E poi, il destino è qualcosa che viene assegnato come una ruota della fortuna, o un’estrazione alla lotteria? Siamo solo in balia del caso, alla mercé della statistica e delle probabilità? Possiamo convivere con la consapevolezza dell’unicità che è toccata in sorte, senza per questo sprecare la vita?

Nato a Belgrado nel 1963, Veselin Marković, attualmente vive a Strasburgo con la moglie e i figli. Studioso di Proust e Nabokov, nonché traduttore di quest’ultimo, ha scritto numerosi saggi critici, tre raccolte di racconti, un libro di viaggio sulla Norvegia e due romanzi. Noi diversi – titolo originale Mi različiti – uscito in Serbia nel 2010, ha ricevuto i premi della città di Belgrado, “Bora Stanković” e “Matijević”, ed è stato tradotto in Slovenia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Norvegia, Polonia e Bulgaria.

Qui potete leggere l’incipit. Il volume è completato dalla postfazione a cura della bravissima traduttrice Anita Vuco, che propone una serie di interessanti riflessioni sulla letteratura e il suo ruolo.