Chi intende raccontare come si sono conosciuti i propri genitori deve essere disposto ad affrontare qualche rischio. L’esistenza di ciascun individuo sembra talmente dominata dal caso che un solo movimento della mano può stravolgere tutto. Ma una cosa è averne il sospetto, un’altra è trascinarlo alla superficie delle parole, perché allora è come se il terreno cedesse e si aprisse un crepaccio sotto i piedi. (pag. 61)

Crepitio di stelle, di Jón Kalman Stefánsson, Iperborea 2020, traduzione di Silvia Cosimini, pagg. 232

Iperborea ha da poco pubblicato uno dei primi romanzi di Stefánsson, scritto nel 2003: la CE ha già pubblicato ben sette suoi romanzi, ed ora porta al pubblico italiano, nella consueta traduzione di Silvia Cosimini anche questo. Di Stefánsson, autore che amo molto, vi ho già parlato in occasione delle recensioni di Storia di Ásta e di I pesci non hanno gambe; anche la copertina, come per gli altri volumi, è opera di Emiliano Ponzi, di cui vi ho parlato QUI.

Crepitio di stelle anticipa molto di ciò che poi troviamo nei romanzi successivi. Innanzitutto la scrittura poetica, cifra assolutamente riconoscibile di un romanziere che è stato prima poeta. Direi anzi che in questo primo lavoro è ancora più marcata e trova una grande espressività soprattutto laddove il narratore, ritornando agli anni della sua infanzia, parla con la voce, lo stupore, l’ingenuità e le paure di un bambino di sette anni.

Stefánsson cuce in questa opera un racconto patchwork, accostando ritagli di vita di generazioni diverse di una stessa famiglia. La voce narrante è un uomo di quarant’anni che torna nel suo vecchio condominio, dove ha vissuto durante l’infanzia, e ripercorre a ritroso nella memoria i fatti e i turbamenti che hanno animato la sua giovane vita.

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Il filo narrativo si dipana tra i ricordi d’infanzia intrecciati con la storia dei bisnonni, per risalire laddove il caso ha messo in fila gli eventi per far sì che egli venisse alla luce in questo mondo. E se quando il racconto si anima attorno ai due bisnonni ci fornisce anche una bella testimonianza della vita in Islanda durante il secolo scorso, allo stesso modo tratteggia i contorni della Reykjavík degli anni Settanta quando ripesca il sé bambino.

Non c’è una vera e propria trama a tenere insieme il tutto, piuttosto la necessità del narratore di salvare dall’oblio le storie di famiglia che gli sono state raccontate dai pochi parenti che ha potuto conoscere, e dai pochi oggetti sopravvissuti al tempo. Dunque una sfilata di caratteri, personalità, scelte e accadimenti che, tutte insieme, hanno determinato il suo destino e formato il suo stesso carattere.

I due perni attorno a cui si snoda la narrazione sono la storia turbolenta dell’amore e del matrimonio dei bisnonni, e la sua infanzia, vissuta in un condominio popolato da bambini, in una casa in cui i suoi compagni di gioco erano dei soldatini, e in cui troppo presto è venuta a mancare la mamma. L’elaborazione del lutto è uno scoglio grandissimo per un bambino di sette anni, complicato dal fatto che, a un certo punto, nella loro casa si materializza come per magia una donna, che scoprirà poi avere un appellativo inquietante: matrigna.

Intorno a lui ci sono il papà muratore, taciturno e accomodante, gli amici giù in cortile, il bullo di turno, la scuola, i negozi lungo la via e i loro proprietari, a volte originali e simpatici, altre più inquietanti. Il tutto raccontato con un dono speciale, una scrittura poetica che permette a Stefánsson di elevare anche i gesti più banali, di illuminare la quotidianità.

Stesso dono con cui viene reso il paesaggio islandese: Reykjavík, dalla piccola cittadina dei primi anni del Novecento, alla città degli anni Settanta, con i nuovi condomini che nascono di continuo; le terre dei fiordi, soprattutto la penisola Snæfellsnes dove si trova lo Snæfellsjökull il ghiacciaio islandese che ricopre il vulcano Snæfell.

Snæfellsjökull

Lo Snæfellsjökull si innalza sul mare e talvolta si mostra agli abitanti di Reykjavík. Un giorno la bisnonna e il bisnonno videro il ghiacciaio rompere gli ormeggi che lo assicuravano alla terra e fluttuare a mezz’aria, era quando c’erano i diciassette anni alla finestra della soffitta. (pag. 163)

I personaggi sono perfettamente tratteggiati dalla penna di quel grande maestro che è Stefánsson. Le figure maschili, come il padre, apprendista manovale, timido e impacciato, taciturno, che si è ritrovato vedovo e con un figlioletto quando lui stesso era ancora un ragazzo; e poi il bisnonno, un tipo originale e imprevedibile, che da ragazzo sognava di viaggiare in tutto il mondo, e che invece non ha mai lasciato la terra natia, che ha sposato una ragazza più giovane di vent’anni a cui, nonostante i tradimenti e le bevute, i colpi di testa e le debolezze, non ha mai smesso di tornare.

Con la stessa bravura ha reso le figure femminili: la bisnonna, bella e determinata, contrappunto e bilanciamento rispetto alle mattane del marito; la mamma, una ragazza con un passato difficile, distratta ed eterea come una nuvola; la matrigna, una donna arcigna, ruvida come carta vetrata, impassibile come le rocce levigate dal vento che spira sui fiordi del nord da cui proviene.

Di che cosa sono fatti i legami che uniscono due persone, e che nel disorientamento generale sono stati definiti amore? È una domanda importante perché a volte sembra proprio che niente riesca a separare due persone, né l’implacabile inerzia della quotidianità né la forza esplosiva di un singolo istante. E lo dico da disorientato, perché sospetto che questa parolina, amore, sia sinonimo di talmente tante cose che non mi basterebbe un giorno intero per spiegarle tutte. (pag. 119)

Ma è soprattutto il sé bambino a spiccare su questo fondale boreale, a cui fa da eco l’uomo adulto che cerca di rimettere insieme i tasselli della memoria. Colpisce davvero il modo in cui l’autore riesce a rendere credibili i pensieri di un bambino di sette anni, i piccoli e grandi drammi della sua vita, le paure e i dubbi che lo assalgono e con cui deve misurarsi per diventare un uomo.

Qui potete leggere l’incipit.