«Siete sicuri di essere di sinistra? Io ero preparato a un botta e risposta su temi come Rapporti col sindacato, Normative disattese sulla sicurezza sul lavoro, Vertenze, Malattie professionali, ecc.».
«Magari un’altra volta. Volevamo qualcosa di diverso, che attizzasse il pubblico. Quella roba non fa più notizia. Comunque ha ragione, per noi rappresenta un punto di svolta. Da lei – non foss’altro che per aggiornare le notizie che riguardano il profilo aziendale – attendevamo invece indicazioni sul suo successore. Tutta la stampa si interroga. Sarà maschio o femmina?» (Pag. 170)
La meccanica del divano, di Francesco Dezio, Ensemble edizioni 2021, pagg. 286
Francesco Dezio ci ha abituato a uscire con romanzi che lasciano il segno; lo ha già fatto al suo esordio con “Nicola Rubino è entrato in fabbrica”, romanzo cult nella letteratura del lavoro (ve ne ho parlato qui), e poi con “La gente perbene” . Ora torna in libreria con un romanzo assolutamente unico, originale nell’impianto narrativo, graffiante e corrosivo, capace di mettere a nudo le ipocrisie che hanno marcato il lavoro e la società dal boom degli anni Sessanta alle varie crisi dei primi anni Duemila, fino alle derive attuali.
Costruito come un’antica tragedia greca, il romanzo è una polifonia di voci: al fianco dei protagonisti, con le loro storie di successo e cadute, intrecciate tra loro da meccanismi diabolici, emergono le voci incalzanti e un coro insistente. Tra le voci c’è quella che tutto guida e tutto muove, come un potente burattinaio, il mercato; c’è la stampa, quella avversa e quella di tendenza; e poi un coro di influencer, di CEO – esperti di marketing del nuovo millennio -, di spin doctors con ruoli difficili da definire; ma anche la voce polverosa della tradizione, quella che vorrebbe che nulla cambiasse ma che invece dovrà soccombere alle nuove logiche. E poi c’è questo mostro multiforme, che cambia spesso faccia e sembra sfuggire ad ogni tentativo di afferrarlo: l’azienda, nelle sue cangianti forme a scatole cinesi, che si spostano di continente, che fanno sparire capitali e posti di lavoro, magari facendoli ricomparire, fugacemente, da qualche altra parte.
La meccanica del lavoro è ambientato in Puglia, nell’amena località di Infernominore, nella provincia del miracolo economico del divano – ma la sua parabola imprenditoriale ha un respiro nazionale – e del suo incontrastato re, Natalino Manucci, “uno che fa parlare di sé su tutti i giornali, capace di far ridiscendere gli emigranti da dove stavano”, imprenditore di successo, partito come vuole il racconto agiografico, dal basso. Da tappezziere a self-made businessman di una holding quotata alla borsa di New York. Intorno a lui un universo di contoterzisti, di prototipisti, di ex suoi operai che hanno deciso di mettersi in proprio per aderire, anche loro, al sogno di ricchezza, di rivalsa sociale, di vita di successo. In questa selva di vite, il romanzo ne sceglie due, emblematiche: Nuccio Forleo e Michele Persico, raccontati dal coro dei capallegra. Caratterizzati dalla stessa avversione allo studio e da pari sordità verso sistemi di lavoro sindacalizzati, i due si affacciano sulla scena piccolo-imprenditoriale come soci, per poi proseguire la loro parabola singolarmente, in un’epoca in cui c’è spazio per tutti.
I due ruspanti neo-imprenditori hanno imparato bene la lezione del dominus e del mercato e, perfettamente allineati alle logiche di un’intera epoca, si tuffano di testa nel mare della grande abbuffata: percorrono la via dello sfruttamento dei lavoratori sottoposti e poi della globalizzazione, infine, della delocalizzazione; tutti asserviti ad una macchina geo-politica che, come uno schiacciasassi, spiana la strada ai transfughi del profitto. Un sistema che fagocita tutti, prima o poi, e anche chi dapprima ne aveva tratto profitto, si inabissa; ma con guizzi ed escamotage politico-finanziari, si sa, gli squali più grossi riescono comunque a sopravvivere.
Sullo sfondo, come dei personaggi senza volto, senza identità comune, stanno gli operai, non più “la classe operaia”, no, proprio i singoli, perché è a questo che il mercato ha puntato: la disgregazione come categoria, l’annientamento di una forza che si basava sulla coesione collettiva, che aveva almeno un potere di contrattazione, ormai del tutto svuotato. E tutto questo nell’acquiescenza generale, nell’anestesia totale che avvolge l’opinione pubblica, la stampa…. Come sarcasticamente dice Natalino Manucci alla stampa avversa nella citazione in apertura, persino loro fanno fatica a dire qualcosa di sinistra…
Il mondo è cambiato, il mondo del lavoro è cambiato pompato dall’ipocrita logica del benessere diffuso, democratico, un paravento farlocco che ha invece aperto le porte ad un sistema che sente solo la voce del profitto e che lo fa con la complicità di una classe politica corrotta e inadeguata, innovativa solo nell’uso – truffaldino – del linguaggio: meglio dire delocalizzare, che sfruttare manodopera nei paesi poveri usufruendo di vantaggi fiscali, senza dovere sottostare al potere sindacale nel nostro; più accettabile dire esuberi che licenziamenti, riorganizzazione produttiva che taglio di unità lavorative, e così via, in un’apoteosi dell’eufemismo.
Tra il 2003 e il 2009, dodici grandi aziende cessano le loro attività e 3.740 lavoratori perdono il lavoro. Negli anni Dieci i contoterzisti praticamente spariscono – non per opera dello Spirito Santo ma perché Manucci preferisce i cinesi veri. (..) qualche giorno dopo, il direttore operativo Gianni Fresna della Seduti & Seduti annuncia che nei prossimi mesi saranno avviate le procedure per licenziare… pardon, non usa questo termine, parla di 1.985 esuberi su un totale di 2.775 (l’altra metà è all’estero, solo che nei primi anni Duemila aveva duemila dipendenti in più in Italia) – c’è bisogno che si dica che in tutti questi anni i posti di lavoro sono drasticamente diminuiti e da qualche altra parte altrettanto drasticamente aumentati? (..) secondo i vertici aziendali la produzione italiana non regge il confronto rispetto a quella di altre nazioni: minacciano una completa delocalizzazione. (Pag. 234-236)
La meccanica del divano ci racconta una favola senza lieto fine; lo fa con sano realismo, con tanto sarcasmo e un linguaggio innovativo, perché se è vero – come è vero – che il mondo del lavoro non è più quello che conoscevamo, anche la letteratura che lo narra deve cambiare il suo modo di esprimerlo. Dezio intrattiene il lettore mostrandogli come un sistema di lavoro senza regole, un sistema economico dall’impostazione neoliberista, un indebolimento del potere sindacale, tutti questi elementi insieme hanno fagocitato interi territori e capacità produttive, prima abbindolate con la logica della crescita veloce e diffusa, poi bastonate con un’altrettanto veloce caduta.
Interi territori hanno perso la loro identità di fabbriche di mestieri, di competenze, di eccellenze; il know-how svenduto e delocalizzato in paesi che lo hanno fatto proprio e utilizzato come volano di sviluppo; il lavoro messo in saldo e svuotato di qualsiasi etica. Dezio ci mostra un meccanismo che allinea tutto questo alla pornografia: in una provincia in cui i sogni da pornostar di Myriam solo l’unica possibilità di rivalsa personale, anche i sogni di riscatto e di scalata sociale assumono gli stessi connotati.
(la stampa avversa): «Ma i lavoratori italiani che fine faranno? Li lasciate col moccolo in mano?»
«Oh, finalmente avete detto qualcosa di sinistra!»
(i C.E.O.): «Gli italiani non sono affar nostro. Escludendo chi va per gli “anta”, che fatica per stare al passo e fa parte del passato, ci rimarrebbero quei vuoti a perdere dei millennials, ma quelli non si accontentano, preferiscono farsi gli Erasmus, vogliono andarsene, anche a costo di fare i lavapiatti in Inghilterra (uno schiaffo – neanche tanto morale – ai nostri albergatori e ristoratori che piangono carenza di personale), è una generazione poco incline ai sacrifici con la quale proprio non riusciamo a intrattenere un dialogo.»
Un romanzo nichilista, amaro e pure spassoso, movimentato dalle tante voci – compresa quella dell’autore – che prendono la parola, in un linguaggio “fusion” che mescola il dialetto pugliese – tranquilli, ci sono le note – al gergo aziendale, al linguaggio dei social e della stampa. Un romanzo-parabola che come un viaggio nel mondo del lavoro dall’epoca del boom economico ai più tristi anni della globalizzazione e della standardizzazione socio-culturale-ideologica, ci mostra senza veli cosa siamo diventati.
Francesco Dezio (1970) è nato ad Altamura (Bari) dove vive e lavora come illustratore. Con il suo romanzo d’esordio Nicola Rubino è entrato in fabbrica (Feltrinelli, 2004) ha aperto la strada alla letteratura postindustriale. È autore del romanzo La gente per bene (Terrarossa, 2018) e della raccolta di racconti Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta (Stilo, 2014).
Ben vengano libri come questo: abbiamo davvero bisogno di interrogarci sul tema del lavoro. Ben vengano recensioni belle e appassionate come questa: sei un raggio di sole in queste giornate uggiose, Pina!
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Troppo buona con me.. Grazie, sai quanto il tuo parere mi gratifichi. Il libro merita la tua favorevole accoglienza. È un romanzo che tratta un tema molto serio, in certo modo drammatico, e lo fa con profondità coniugata all’ironia. Si legge velocemente perché Deziio è capace di intrattenere il lettore. La forma polifonica poi lo rende brillante e vario.
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Ho letto Nicola Rubino, non La gente perbene; questo qui penso proprio che prima o poi lo leggerò
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Dezio ti stupirà…
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Allora Nicola Rubino è per la tematica del lavoro l’erede e continuatore di Paolo Volponi che tu sicuramente conoscerai e forse avrai anche recensito?
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Volponi credo sia un grande punto di riferimento e di ispirazione per chi, come Francesco Dezio, ha deciso di raccontare il mondo del lavoro. Dezio, con il suo “Nicola Rubino è entrato in fabbrica” ha preso il testimone di una staffetta letteraria che con il nuovo romanzo, “La meccanica del divano” prosegue il racconto dell’epoca post-indistriale.
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Senza dimenticare, di Giorgio Falco, Ipotesi di una sconfitta, sempre sulla tematica del lavoro e anche della vita di un padre e di un figlio, che però(affrancandosene?) prende una strada diversa, quella dello scrittore. Forse Giorgio Falco, quando aveva diciotto vent’anni avrà letto sia John Fante che Il giovane Holden, ma questo giusto per dire delle sedimentazioni su cui poi si andrà a scrivere. Però, non ci ho pensato quando lessi Ipotesi di una sconfitta, ma la sconfitta dovrebbe essere quell del padre e se invece fosse del figlio la sconfitta? Una sconfitta più larga, più in generale e più a fondo? Anche perchè la vita di uno scrittore, anche se è uno che non fa sconti a nessuno e tanto meno a sè, è sicuramente meno alienante. O no?
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Forse la sconfitta di un sistema? una sconfitta che trascina anche chi ci sta all’interno… una sconfitta generazionale? anche una sconfitta del patto generazionale, del passaggio di testimone tra padri e figli, che come sappiamo, oggi non sta funzionando…
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O forse la sconfitta della coscienza …
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