Taejoo mise cautamente un piede sulla finestra sentendo una grande soddisfazione pervadergli il corpo. Per la prima volta, provò un senso di sollievo nel poter decidere della sua morte. Come una donna nata nel corpo di un uomo o viceversa, la sua anima e il suo corpo traditi lo guidavano e adesso si trovava tra la vita e la morte. Era già morto vent’anni prima o forse erano vent’anni che si stava uccidendo lentamente.

Buio in sala, pag. 273

Buio in sala, di Jung-myung Lee, Sellerio editore 2022, traduzione dal coreano di Benedetta Merlini, pagg. 300

Il romanzo dello scrittore coreano Jung-myung Lee ha una trama piuttosto complessa, confesso che all’inizio ho preso molti appunti per seguire il filo della narrazione. Probabilmente si tratta di un mio limite, e della poca dimestichezza con i nomi e le vicende di quel paese. Superata la boa del primo capitolo, però, ci si trova molto coinvolti, soprattutto se si è amanti del teatro. Già il titolo porta dentro una sala teatrale: in trepidante attesa dell’inizio dello spettacolo, quando le luci si spengono e dopo pochi istanti gli attori compaiono sul palco e lo spettacolo ha inizio; o quando le luci si spengono alla fine della rappresentazione e il pubblico lascia la sala. Oppure, e più tristemente reale nella Corea degli anni Ottanta, quando la censura o la polizia irrompono in sala, e le luci si spengono non solo in quel luogo ma sulla libertà di espressione.

Siamo nella Corea degli anni ’80, gli anni del massacro di Gwangju, avvenuto a seguito di una rivolta popolare scoppiata il 18 maggio 1980 nel centro di Gwangju in Corea del Sud contro la dittatura di Chun Doo-hwan. La dittatura di Chun Doo-hwan si era instaurata a seguito di un colpo di stato avvenuto il 12 dicembre 1979, il secondo nel giro di un anno. Il primo colpo di stato aveva visto l’assassinio del presidente Park Chung-hee da parte dei servizi di intelligence. Sotto la dittatura, questi eventi vennero presentati alla popolazione come una rivolta comunista; fu solamente una volta instaurato un regime democratico nel Paese che il massacro venne riconosciuto come une violenta repressione di un movimento che mirava a difendere le libertà individuali dei coreani.

Nel 1997, i presidenti Chun Doo-hwan e Roh Tae-woo vennero condannati in un processo nel quale erano anche accusati della responsabilità del massacro di Gwangju, assieme a 17 altri imputati. Vennero graziati in seguito. Nel 2002 fu creato un cimitero nazionale per le vittime del massacro e il 18 maggio venne dichiarata giornata nazionale di commemorazione

All’inizio del romanzo incontriamo l’investigatore Kim Kijoon, con un mandato straordinario del suo Supervisore, insegue Choi Minseok, ispiratore delle rivolte degli studenti. Di questo capo però non ci sono foto, né notizie certe, è insomma una specie di Primula Rossa, invisa al potere ufficiale quanto amata dai suoi antagonisti. Kim Kijoon e la sua squadra, dopo l’ennesima azione infruttuosa, arrivano ad ipotizzare che il nemico sia il regista teatrale Lee Taejoo, sulla base di una sola foto sfocata e ambigua, scattata da lontano durante una sommossa studentesca.

Il regista viene arrestato al termine dello spettacolo da lui diretto, il “Giulio Cesare” di Shakespeare, faticosamente passato al vaglio della rigidissima censura, la cui poca conoscenza dell’opera e l’assoluta stupidità non è neppure riuscita a cogliere le battute indirettamente indirizzate al potere in carica. L’interrogatorio è condotto da Kijong, alla sua maniera: non crede alla tortura, né alle intimidazioni, mentre è convinto che la ricerca di emozioni vere possa tradire anche il più cocciuto dei prigionieri. Entrambi gli uomini sono consapevoli di essere in una scena che prevede un copione, come in un teatro, e proprio a suon di battute viene condotto un interrogatorio/spettacolo che induce l’investigatore a desistere, non ci sono reali prove contro il regista, e il Supervisore scioglie la squadra investigativa, accusata di incapacità.

Anni dopo, è proprio Kijong a riprendere in mano l’indagine, quando segue la messa in scena di “Le scuse di Elettra”, una rivisitazione dell’Elettra di Euripide. Il regista è sempre il sospettato Taejoo, la prima attrice interprete di Elettra è la giovane e bella Jina, innamorata della recitazione e ben disposta ad impararne i segreti.

In questa parte della narrazione l’autore dedica molto spazio alla formazione dell’attrice; davanti a lei si muove un carosello di personaggi di dubbia identità. Diventati una coppia, Jina – innamorata del regista – accetta da Taejoo di svolgere degli incarichi, delle consegne di pacchetti e buste. Kijong non perde una mossa, fino a tessere una trama quasi diabolica di inseguimenti, contatti, travestimenti e false identità intorno al regista e al suo spettacolo, pronto ad arrestarlo alla sera della prima, convinto ormai da mille indizi che egli sia “davvero” il fantomatico capo ribelle Choi Minseok.

In questa fase della lettura ho avuto diverse difficoltà, lo ammetto, perchè l’autore gioca molto sulla sovrapposizione di nomi e di identità, sulla ambiguità e serve una discreta concentrazione per non perdersi.

Durante la rappresentazione teatrale accade che tra il pubblico ci sia l’intera famiglia dell’ambasciatore statunitense, proprio quando nel teatro scoppia una bomba. Nel fuggi fuggi generale, mentre gli americani vengono fatti uscire in fretta e furia, ecco che si materializza il Supervisore, che cattura personalmente il regista e pone fine all’annoso inseguimento del nemico numero uno dello Stato coreano. Il supervisore ottiene da Taejoo una confessione piena. Che sia una vera confessione o una scelta oggligata? E perché Kijong che pure era in sala non muove un dito?

Elettra, Teatro Vascello

Dopo sette anni di prigione, nel 2003, Taejoo si ritrova in libertà, in un mondo che non riconosce più (l’URSS si è sgretolata, Gorbacev sostituito da un Eltsin alcoolizzato a cui fa da controfigura un attore in pensione, Reagan colpito da Alzheimer, Seul è diventata una selva di grattacieli e insegne luminose). Jina gli era stata sì vicina per i primi anni di prigionia, ma poi aveva scelto di entrare nel mondo del cinema, e la loro storia era finita. Ora la stessa Jina, attrice di grande successo, torna sul palcoscenico per un’ennesima ripresa di “Le scuse di Elettra” (sul mito di Elettra ho scritto QUI), stavolta nel ruolo di Clitennestra. Lee Taejoo dimenticato da tutti e in miseria, si suicida. E’ il 2007.

Voleva allontanarsi da quella vita che non capiva. Tremava al pensiero di essere vivo e di dover ancora vivere.

Ma il teatro, si sa, è uno dei più potenti strumenti di ribellione, poiché è capace di portare in scena la vita. Non a caso il protagonista è un regista teatrale. Il teatro è la rappresentazione dell’uomo che imparare a conoscere sé stesso e il mondo con un’intensità e una verità dirompente. Sulla scena si animano le pulsioni che caratterizzano l’essere umano, con vizi, debolezze e ritrosie.

E l’autore, in questo vibrante tributo, ne fa il protagonista assoluto della narrazione, portando il lettore nei suoi territori più vitali, in quella capacità di farsi onda d’urto rivoluzionaria, capace di sovvertire e reinventare la realtà.

Qui potete leggere l’incipit.

Jung-myung Lee ha studiato letteratura coreana e dopo la laurea ha lavorato come giornalista. Il suo esordio del 2006, il romanzo The Deep-Rooted Tree, ha aperto una nuova stagione della narrativa coreana contemporanea, ed è stato trasposto nel 2011 in una serie televisiva. Sono seguiti altri quattro romanzi, che lo hanno reso uno degli autori più rispettati e popolari della Corea del Sud. Con Sellerio ha pubblicato La guardia, il poeta e l’investigatore (2016, finalista al Premio Bancarella 2017) e Buio in sala (2022).