Il focus di oggi è dedicato a Simon Reynolds che personalmente apprezzo molto; in più, mi piacciono i libri che raccontano la musica, come fenomeno artistico, come fenomeno socio-culturale, perché con la letteratura, è lo specchio di un’epoca, spesso ne anticipa le tendenze indicando una via da percorrere.

Simon Reynolds (Londra, 1963) è uno dei più importanti critici musicali contemporanei. Collaboratore di Melody Maker, The New York Times, Village Voice, Spin, The Guardian, Rolling Stone, The Observer.

1985-2008: la sperimentazione della musica popolare continua. Che cos’hanno in comune Sonic Youth e 50 Cent, Public Enemy e Nirvana, The Smiths e Missy Elliot, Artic Monkeys e LL Coll J, Radiohead e Snoop Dogg? “Hip-hop-rock” è il racconto di quella linea di confine così mobile e tumultuosa tra musica “nera” e musica “bianca”, l’incontro, lo scontro e la passione tra il rock underground e il rap dei ghetti. Attraverso articoli, saggi, interviste e recensioni da oltre vent’anni di carriera, Simon Reynolds traccia un monumentale e capillare resoconto del rapporto tra due mondi che si evolvono sol quando dialogano.

Pubblicato originariamente nel 1998, a vent’anni dall’esplosione dell’acid house e dell’Ecstasy, nel 2010 Arcana riporta in libreria la versione riveduta e aggiornata della Bibbia della musica elettronica firmata da Simon Reynolds
“Energy Flash” è rapidamente diventato il libro di riferimento, la parola definitiva sulla rivoluzione culturale e musicale che ha visto protagonista la generazione “chimica” a cavallo del nuovo millennio, perduta nel “culto dionisiaco dell’oblio”. Nelle sue pagine prende forma con grande lividezza la fitta trama di sottoculture, generi, riti, luoghi, eventi e suoni che compongono il mosaico della scena dance mondiale e la sua ossessiva ricerca per il beat perfetto, dagli scantinati di Detroit che videro la nascita della techno al fumo delle discoteche di Ibiza e Manchester, dalle spiagge di Goa all’elegante decadenza dei club berlinesi di oggi, fino ai sottogeneri proliferati in seguito alla seconda estate dell’amore: jungle, garage, trance, ambient e le successive ramificazioni 2step, grime, dubstep. Tutto quello che volevate sapere sugli artisti e i dj che hanno creato la dance culture, sul pubblico che ne ha fatto uno stile di vita, sul lato oscuro del connubio tra musica e droga: la ricerca dell’edonismo sfrenato, le sue conseguenze psicologiche e sociali, “la ciclica alternanza magia-tragedia insita nella pratica di vivere per il weekend e poi pagarne le conseguenze negli altri giorni della settimana”.

Marc Bolan innescò la miccia della bomba glam. L’insurrezione plastificata degli Sweet. Il bubblegum grezzo di Gary Glitter. Il
ruggito frenetico e trionfale degli Slade. Lo sgargiante pandemonio di fiati e capelli multicolori degli Wizzard. La chiassosa leziosaggine dei Roxy Music. Alice Cooper, il pifferaio demoniaco. L’istrionismo spaccone degli Sparks. E al centro di tutto David Bowie,
destinato a dominare il decennio come i Beatles avevano fatto negli anni Sessanta, una presenza fissa ed elegantemente eccentrica
nella classifica pop. Fu proprio «Space Oddity» – il primo numero 1 di Bowie, quando venne ristampato nel 1975 – a lasciare l’impronta più profonda su di me da giovane.
Da Marc Bolan ad Alice Cooper, da Gary Glitter a Lou Reed, dai Roxy Music ai New York Dolls, da Wayne County ai Queen, dagli Ultravox ai Kraftwerk, dal Rocky Horror Picture Show a L’uomo che cadde sulla Terra, senza dimenticare un’esauriente panoramica sugli strascichi del fenomeno: Johnny Rotten, Kate Bush, Grace Jones, Prince, Madonna, Marilyn Manson, Lady Gaga e Kanye West, per fare solo alcuni nomi. A farla da padrone è però David Bowie. Concepito e scritto quasi interamente prima del 2016, Polvere di stelle è stato rivisto e arricchito in seguito alla scomparsa del Duca. Simon Reynolds ne ripercorre la traiettoria personale e artistica a cavallo tra Inghilterra e Stati Uniti – non a caso i due paesi d’origine del glam rock – con la vertiginosa e straordinaria profondità analitica di cui è maestro, senza tentazioni agiografiche ma con la passione di un fan sconvolto dalla sua morte improvvisa. Ancora una volta la musica è utilizzata come lente per leggere i periodi storici, tracciando nessi spesso coraggiosi tra le forme artistiche più disparate: Oscar Wilde diventa così il «profeta del glam», mentre l’ascesa del rock parodico negli anni Settanta rientra nel concetto di «maniera» delineato da Oswald Spengler nel Tramonto dell’Occidente.

Il punk mi ha sfiorato a malapena di striscio. All’epoca non avevo ancora quattordici anni, ed ero cresciuto in una città di pendolari dell’Hertfordshire. Del 1977, e di tutto ciò che portò con sé,
ho solo qualche pallida reminiscenza. Ricordo vagamente un supplemento domenicale a colori che pubblicava servizi fotografici
sui punk con i capelli a punta, e praticamente nient’altro. I Pistols
che dicevano oscenità in televisione, «God Save the Queen» contro il Giubileo d’argento, tutta una cultura sconvolta e scossa fino
alle fondamenta: e io non me ne accorsi
Il post punk non è un «genere» come tanti, non è la diligente coda del punk, a cavallo tra due decenni, quando la rivoluzione è finita e i giochi sono fatti; è, al contrario, la musica e il tempo in cui tutto diventa possibile. I confini cadono, i divieti sono ignorati, le regole vengono sovvertite in una sperimentazione continua, selvaggia e colta insieme. Il post punk non è retromaniaco – per usare la categoria critica che lo stesso Simon Reynolds ha creato e che si è imposta come definizione della nostra epoca – ma è il «suono» del presente e delle sue possibilità infinite. Per questo motivo, a distanza di quarant’anni, ancora appassiona e influenza. La musica degli inglesi Joy Division, P.I.L., Gang of Four e Slits, degli americani Pere Ubu, Devo, Talking Heads e di altri gruppi noti e meno noti continua a essere fonte d’ispirazione per migliaia di artisti in tutto il mondo. Con Post punk Simon Reynolds scrive il suo libro più personale e coinvolgente, mostrando l’erudizione enciclopedica, la raffinatezza d’analisi e l’abilità divulgativa che ne fanno il critico musicale più importante della nostra epoca. I suoni e le emozioni, le speranze e l’euforia escono fuori da ogni pagina e ci invitano all’ascolto amorevole di una musica e di un tempo che non può essere ripetuto ma solo reinventato.

La musica elettronica ci affascina così tanto perché promette il futuro: è la musica di domani, oggi. Questa storia personale e dizionario amoroso di mezzo secolo di musica elettronica – costruito attraverso profili, saggi e interviste – non poteva dunque che chiamarsi Futuromania. Simon Reynolds eleva a titolo l’orgogliosa dipendenza dal nuovo, l’amore per tutto ciò che sembra arrivare alle nostre orecchie come un ambasciatore della forma sonora delle cose che verranno. Ma il lungo percorso che dagli anni Settanta di Giorgio Moroder, Kraftwerk e Brian Eno porta al synth-pop, alla musica della cultura rave, a Burial e ai tardi anni Dieci della trap e della conceptronica nasconde un’inquietudine, se non proprio un paradosso: la sensazione che in qualche modo siamo andati oltre il futuro, e lo abbiamo lasciato alle spalle.
«I Feel Love», «Trans-Europe Express» e le altre profetiche registrazioni del nostro avvenire pop iniziano a sembrarci memorie fantasmatiche di una modernità e di un modernismo ormai finiti. I sogni elettronici sono quindi fatti della promessa e del ricordo del futuro, sono desideri e ossessioni insieme.
Futuromania è una guida tanto autorevole quanto entusiasta, informa e soprattutto spinge il lettore alla scoperta del nuovo, accompagnandolo in fantastiche avventure sonore. Perché, come dice l’autore, «qui dentro c’è tutta una vita di ascolto elettronico».
Memore delle sue pubblicazioni passate, lascia i suoi lettori con un moderato giudizio: la musica evolve in maniera dialettica, mediante scarti fulminei del desiderio popolare che sono letteralmente imprevedibili. Una bolla (d’interesse, d’entusiasmo, di possibilità) scoppia all’improvviso; autori e ascoltatori intuiscono che una certa direzione sta diventando un vicolo cieco, senza dare vita a gioie o colpi di scena imprevisti.

È proprio vero che la musica ha smesso di evolversi? Quel che è certo è che gli anni Zero non hanno dato inizio al futuro che in campo culturale ci aspettavamo: le reunion più o meno riuscite, le cover band, il ritorno del vinile e delle musicassette hanno contribuito alla creazione di uno scenario dove anche i nuovi personaggi assomigliano a un patchwork di fenomeni precedenti.
Attraverso aneddoti di giganti della vecchia guardia (con esaltanti panoramiche su Beatles, Patti Smith e Frank Zappa) e di artisti contemporanei – che sono spesso giunti alla notorietà rielaborando scampoli di musica strappati all’oblio – Simon Reynolds, incoronato erede di Lester Bangs, ci racconta questa ossessione per il passato in un saggio che unisce lo sguardo appassionato della critica musicale alla lucidità dell’indagine sociologica. E, insieme alla denuncia di un futuro che non c’è stato, pone una domanda a cui ancora non c’è risposta: continueremo a vivere oppressi dalla nostalgia oppure la retromania si rivelerà una fase storica isolata?
Vi suggerisco di dare un’occhiata anche a questo post:

Bel post! Ho letto Post Punk e ogni tanto ne rileggo alcuni capitoli. Bellissimo libro.
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Reynolds conosce molto bene l’argomento e ha uno stile di scrittura accattivante.
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Si, infatti è molto competente.
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Credo che non lo farò mancare nella mia libreria. Grazie per questo prezioso articolo
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È uno dei migliori autori in questo campo.
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