L’accademia è un mondo psicotico affetto da una grave dispercezione della realtà, popolato da individui dotati di fama estremamente limitata(..) che operano in un settore marginale e assolutamente indigente come quello della cultura, e che nondimeno si sentono delle rockstar, e hanno ego e comportamenti commisurati a questa loro convinzione.

La ricreazione è finita, pag. 154

La ricreazione è finita, di Dario Ferrari, Sellerio editore 2023, pp. 480

Da qui alla fine dell’anno leggerò sicuramente decine di romanzi, spero tutti belli, ma comunque essi si possano rivelare, so già che difficilmente riusciranno a superare l’esperienza di lettura che mi ha regalato Dario Ferrari: questo libro entra di diritto nel mio personale olimpo libresco e non in una posizione dignitosa, anzi, nella parte alta, quella più vicina al mio cuore di lettrice.

Un libro che non sono stata capace di posare se non per espletare le minime funzioni vitali, una lettura che si è protratta nelle ore notturne, quando per leggere ho bisogno degli occhiali. Un libro che mi ha riportato a tempi, luoghi e pensieri del passato, che si erano sopiti (Marcello Gori lo sa bene cosa intendo) ma che Ferrari ha fatto prepotentemente riemergere. Ma bando allo sbandierare se stessi, veniamo al libro che merita campo libero e orecchie sintonizzate.

Il protagonista è Marcello Gori, un trentenne viareggino, ex studente pendolare (che sembra un dettaglio, essere pendolari, ma non lo è) dell’Università di Pisa, che ha frequentato per quasi un decennio con risultati mediocri, ma coronati dalla laurea, con una tesi su Kafka. Marcello è un attendista, irresoluto, allergico alle cosiddette responsabilità della vita adulta (sposarsi, fare un mutuo, trovarsi un lavoro stabile, fare figli ecc), vittima di un torpore esistenziale che lo tiene in un limbo di eterno adolescente. Non sa bene cosa vuole fare della sua vita, ha solo alcuni punti di riferimento stabili: la cricca degli amici con cui condividere tutto e con i quali annegare nell’acol delusioni e sconfitte, una fidanzata perfettina e ricca, studentessa con alto profitto di Medicina, e per antitesi, un padre di cui non vuole ereditare niente, né il carattere, né tantomeno il bar che il genitore gestisce. C’è molta ruggine tra loro: Marcello non gli ha perdonato di avere lasciato sua madre – e di conseguenza lui – per un’altra donna (anche se poi scoprirà che le cose sono più complicate), non gli perdona il suo atteggiamento paternalistico e la totale sfiducia nelle sue capacità di trovare una affermazione lavorativa.

Per vivere Marcello colleziona lavoretti saltuari che però gli servono a mettere in tasca non più di cinquecento euro al mese; naturalmente vive con sua madre, con la quale ha un rapporto decisamente migliore che con il padre.

Un giorno, preso da una botta di nostalgia, decide di fare un giro a Pisa, e di tornare in università per incontrare e salutare le persone che lì ha conosciuto. In uno dei baretti di piazza Dante che era solito frequentare, incontra un amico di vecchia data, Carlo Ceccanti, l’eterno assegnista del dipartimento di Italianistica dal quale viene a conoscenza di un concorso di dottorato in Lettere; pur sapendo di avere pochissime possibilità di farcela, per spirito di contraddizione, decide di partecipare al concorso che assegnerà due borse di dottorato. Probabilmente il potente e carismatico preside della facoltà Raffaele Sacrosanti, il dominus, il deus ex machina del dipartimento, avrà già i suoi prescelti, ma Marcello, che ben si vede nei panni dell’outsider, tenta. La prova scritta, un tema sul grottesco, è perfetta per lui dato che proprio quell’argomento era alla base della sua tesi. E così viene ammesso, come secondo classificato, all’orale. Prima di lui l’eccelsa favorita Agnese Camasta e subito dopo gli altri quotati Pier Paolo, un normalista, e Virginia. Dopo gli orali, però, Marcello si ritrova terzo, dopo Agnese e Pier Paolo, ma, il caso è ancora dalla sua parte, perché Agnese rinuncia, avendo vinto un dottorato a Milano: le due borse di studio per il dottorato vengono assegnate a lui e Pier Paolo.

E qui mi fermo per una prima riflessione sulla ricchezza di questo testo. Ferrari, per bocca di Marcello, spiega i meccanismi, il linguaggio, le trame che regolano l’ambiente accademico; con ironia prende in giro allegramente gli intrighi, le cordate, le frustrazioni, gli sgarbi, insomma tutto il teatrino che si svolge nei corridoi, dove la lotta per il potere si consuma senza esclusione di colpi. Lo fa con ironia, ma quello che racconta è tutto vero. E lo dico per esperienza. Così come è vero che le borse per i dottorati sono state via via tagliate, come è vero che se non sei sotto l’ala di un mammasantissima, ti passano tutti davanti, o addirittura i posti vengono barattati per scambi di favori. Ferrari rappresenta tutto questo attraverso le parabole di Marcello, di Carlo e Pier Paolo, oltreché del barone Sacrosanti.

Marcello, baciato dalla fortuna o dal caso, e sperando che non si tramuti in malasorte, decide così di intraprendere la via del dottorato che gli permetterà di continuare a studiare, che in fondo è la cosa che più gli piace fare, e di avere un lavoro retribuito per almeno tre anni. Prepara alcuni progetti da sottoporre al Sacrosanti – “già extraparlamentare di sinistra in odore di terrorismo negli anni Settanta“, poi ritiratosi alla vita accademica – ma questi glieli boccia e gli suggerisce di approfondire l’opera di Tito Sella, anche lui viareggino, un terrorista finito presto in galera e morto in carcere, dove però ha potuto completare alcuni scritti tra cui le Agiografie infami, e dove si dice abbia scritto La Fantasima, la presunta autobiografia mai ritrovata. Nonostante fosse un suo concittadino, Marcello non ne ha mai sentito parlare al contrario di sua madre che quegli anni li ha vissuti in diretta, e che ricorda i fatti.

Ecco che le vite di Marcello Gori e di Tito Sella si incontrano e si intrecciano; approfondendo la conoscenza della vita di Sella, Marcello inizia a fare paragoni tra sé e il rivoluzionario: mentre Tito a trent’anni progettava la rivoluzione, Gori galleggia in un’eterna adolescenza senza responsabilità; mentre Tito aveva idee e progetti, voleva trovare una via per ribellarsi ad una società che schiacciava i deboli, Marcello fatica a proiettarsi nel futuro, subisce passivamente. In poco tempo Marcello matura un sentimento di vicinanza verso quel suo coetaneo di un’altra generazione, che lo spinge fino a Parigi, dove l’archivio delle opere e delle carte di Sella sono custoditi. Tito Sella aveva fatto parte di una cellula locale, totalmente sganciata da altre organizzazioni, e un po’ casereccia; in quegli anni, la costellazione dell’eversione era ampia e conteneva un po’ di tutto, compresa la brigata Ravanchol, come aveva deciso di chiamarsi quel manipolo di amici.

Scartabellando tra le opere e le carte personali depositate nell’archivio di Sella, Marcello si addentra nella parabola di questa cellula periferica, inesperta ma decisa a mettere in atto azioni dimostrative, senza spargimento di sangue: i cosiddetti espropri proletari, a danno di supermercati e banche. Parabola che si interrompe quando nel gruppo entra uno studente, giovane ma convincente e soprattutto deciso ad innalzare il livello delle azioni. Fino al tragico epilogo che vede la morte di quasi tutti i membri della cellula, l’arresto di Tito Sella, e la fuga dello studente che si era inserito nel gruppo.

Per Marcello è questa l’occasione di approfondire i fatti di quegli anni, consultando i quotidiani in emeroteca, leggendo non solo le opere di Sella ma anche letteratura sui cosiddetti anni di piombo. Nonostante il parere contrario del suo relatore – il professor Sacrosanti – la sua ricerca si focalizza soprattutto sugli aspetti biografici, perché ormai in lui si sta rinsaldando il processo di identificazione con questo improbabile rivoluzionario, di cui ammira anche l’opera letteraria. Si rende conto che ci sono molte zone d’ombra e contraddizioni in merito all’epilogo dell’attività eversiva della banda viareggina: è proprio in queste incongruenze e discordanze che si rivela il turning point della storia, di cui ovviamente non vi posso anticipare nulla.

Ferrari, tramite Marcello, ripercorre la storia della cellula viareggina mostrando i sogni di cambiamento di un’intera generazione, anche laddove essi si fecero realtà nella violenza delle bande armate; un’ampia e variegata costellazione di gruppi che, anche senza coordinamento, si opponevano allo sfruttamento della classe operaia e ai compromessi politici, soprattutto il compromesso storico tra DC e PCI, nelle persone di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, letto come la fine del comunismo, che culminò col rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, e della sua scorta. Nella effimera vicenda viareggina, anche la banda Ravanchol organizza un’azione dimostrativa contro il compromesso storico e vi lascio scoprire in che modo.

Tante le riflessioni che possono scaturire da questo versante della narrazione, che alla fine si palesa consustanziale al disagio esistenziale e sociale esperito da Marcello. E tante le affinità che, in crescendo, legano Marcello e Tito.

La ricreazione è finita è una frase pronunciata dalla brigata Ravanchol durante una riunione (con significato evidentemente opposto) che si rifà alla famosa frase di De Gaulle durante il maggio parigino, durante le proteste dei lavoratori e le manifestazioni degli studenti, che il generale invita a tornare in aula esclamando: “La ricreazione è finita”.

Sono loro a essere fuori luogo: i Pecoraro, come i Sella, come i Ravanchol e tutta la sinistra extraparlamentare, volevano fare piazza pulita dei padri nobili, dei mentori, dei vecchi militanti: volevano fare un mondo nuovo (..). Questi, invece – che poi dovrei dire noi -, non solo non possono fare niente di nuovo, ma non riescono nemmeno a immaginare qualcosa che non sia la santificazione del passato di un settantenne che almeno ha dalla sua il diritto anagrafico di rimpiangere i tempi andati.

La ricreazione è finita, pag. 394

Il bellissimo romanzo di Dario Ferrari è una storia ricchissima di spunti, densa di citazioni letterarie, con tanta finzione ma anche moltissimi riferimenti all’attuale contesto socio-politico, così come a quello degli anni Settanta; una storia che affronta senza reticenze le distorsioni del mondo accademico e il brigatismo degli anni di piombo, le nuove forme di protesta (come il movimento dei gilet jaunes francesi), il tutto espresso con uno stile scorrevole, sapientemente bilanciato tra il serio e l’ironico. Tra le righe non manca l’amarezza condita con una certa rassegnazione.

Marcello, e, direi, Ferrari con lui, riflette sulla desolazione di una generazione, soprattutto nelle città di provincia, che ha smesso di sognare perché ha capito che i sogni sono solo appannaggio di chi se li può permettere.

Paradossalmente, Tito Sella in un certo senso lo sono diventato. Entrambi ci siamo imbarcati in qualcosa che era al di sopra delle nostre forze, ed entrambi siamo inevitabilmente capitolati. Mentre i predestinati, i vincenti, i rampolli delle classi dominanti o anche solo coloro che sanno scalare la gerarchia sociale con le unghie e con i denti (..) si affermano e prosperano in un mondo che sembra pensato per loro, gli altri (..) vengono travolti.

La ricreazione è finita, pag 463

Qui potete leggere l’incipit del romanzo.

A proposito delle riflessioni sugli anni di piombo e sulle opere letterarie che ne hanno parlato, vi suggerisco la lettura dell’articolo a firma dell’autore apparso su Il libraio. Vi suggerisco anche il bel romanzo di Marta BaroneCittà sommersa“, di cui vi ho parlato QUI.

Dario Ferrari è nato a Viareggio, ha studiato filosofia a Pisa dove ha conseguito un dottorato di ricerca. Ha esordito nella narrativa con La quarta versione di Giuda (2020).