Rubem Fonseca, «Il caso Morel», Fazi editore, 2023, pp.196.
Recensione di Claudio Cherin
Di vero in tutto il romanzo di Rubem Fonseca, scrittore brasiliano morto a novantaquattro anni nel 2020, c’è solo il corpo di una donna. Una donna ricca e spregiudicata di nome Heloísa Wiedecker, ritrovata mezza nuda su di una spiaggia.
Il resto è un sottile, quanto ambiguo gioco di specchi che lo scrittore costruisce intorno a un nome: Paul Morel, il nome del presunto colpevole. Per altro già in arresto preventivo, perché «è un artista quindi un sospettato per definizione inoltre è sessualmente promiscuo, questo lo rende una minaccia».
Rubem Fonseca non fa altro che instillare un’ombra di dubbio. Lo fa con la costruzione di un mondo sempre in bilico tra realtà e finzione, tra pagina scritta, immaginazione e realtà, tra ossessione, fobia e mostri generati da una ragione che vacilla. Perché il perno intorno al quale tutto prende forma non «è inventare corbellerie, semmai il punto è sapere se c’è qualcuno interessato ad ascoltarle». E a credervi. E lo scrittore brasiliano indugia non poco a giocare con il lettore. A togliergli ‒ cosa, per altro, che gli riesce piuttosto bene ‒ le certezze che un autore, una storia di genere e il suo detective dovrebbe dare: l’idea che (solo) nei romanzi gialli esista un ordine, una giustizia e non ci siano incertezze.
Dal canto suo Fonseca con affermazioni messe in punti strategici ‒ «la falsa confessione è dovuta a esibizionismo», «siamo tutti complici ad eccezione fatta per i matti e i criminali», «dimentichiamoci la sua innocenza (…) è un finale perfetto per la nostra storia», «chi mai rimarrebbe aggrappato ad una bugia del tutto inutile?», mezzi riferimenti ai Karamakov, colpevoli per antonomasia ‒ non fa altro che far sorgere il dubbio, ad un lettore attento, che tutto quello raccontato sia pura mistificazione. Supportato dalla consapevolezza che c’è «sempre il sospetto che l’universo non sia solo più strambo di quanto immaginiamo, ma più strambo anche di quanto sapremmo immaginare».
Se la verità non esiste (è ontologicamente morta sotto i filosofi del Novecento), cosa impedisce a un artista reo confesso, solo per il suo spasmodico narcisismo, di scontare una pena per un crimine, che non ha commesso? Del resto lo stesso colpevole, Morais o Morel, come si fa chiamare, sconta rassegnato il carcere, legge romanzi, racconta le sue ossessioni, scrive un romanzo, fa un numero considerevole di flessioni e di addominali. Quasi in fondo meritasse il carcere, perché consapevole di quello che gli viene attribuito. Come a voler insinuare che «a ciascuno [tocca] il suo destino», quello che si è scelto. (Citazione per altro presa da Euripide).
Vilela, scrittore di successo ed ex poliziotto, a cui è affidato il compito di guidare il lettore, è troppo stanco, troppo logorato e schiacciato da un vuoto esistenziale (gli sta morendo il padre, e sta attraversando una fase in cui non sembra avere più le parole, per cercare una verità se non assoluta, almeno umana). Pur sostenendo che «di niente dobbiamo avere paura. Se non delle parole», si accontenta della verità che il mondo e il caso gli forniscono.
Poi c’è la parola scritta che prende forma in un romanzo che il pittore sta scrivendo e consegna ogni volta che lo va a trovare a Vilela. In cui si racconta di lusso, sregolatezza e sesso. Molto sesso.
Imprese sessuali stupefacenti, orge, donne disinibite che si lasciano sedurre al primo incontro. O che seducono, al primo incontro. Il desiderio che Fonseca rappresenta ha molto poco di quell’esotismo che si è soliti riconoscere nella letteratura sudamericana. E molto, invece, del desiderio grottesco, logorante, allucinato, efferato di Jean Dubuffe. Dove donne deformate dal desiderio maschile si mostrano come masse deformi.
C’è qualcosa di straniante anche in tutto quel sesso, come se si volesse per forza calcare la mano su un’idea fin troppo stereotipata del Brasile e dell’America Latina. Se ci si trovasse in un romanzo espressionista, qualcuno alla fine morirebbe. Qualcuno si toglierebbe la vita e si capirebbe che tutto è solo un’invenzione. Una maligna, allucinata invenzione di un io corroso dalla nevrosi, dal male di vivere, dalle convenzioni sociali. Invece, qui no.
Il dubbio si insinua e finisce per farla da padrone.
Ambienti ben definiti, narrazioni snelle, serrati dialoghi, indagini, inseguimenti o morti, questi i tratti salienti dello scrittore brasiliano. Ai fatti si sostituiscono le parole scritte dal pittore.
Infine Il caso Morel di Rubem Fonseca è un elogio della letteratura (cita in modo più o meno esplicito Maupassant, Ariosto, Auden, de Sade, Rilke, Proust, Esiodo, Euripide, Matteo 10:36, Raymond Chandler, Dostoevskij i Karamazov, Zola).
Lo stesso Paul Morel non è altri che l’alter ego di D.H. Lawrence di Figli e amanti.
Esistono due tipi di scrittori, quelli che scrivono e seguono un canone, quelli che rischiano ad ogni riga. Ruben Fonseca appartiene a quella schiera di scrittori che rischiano, proprio perché crede nella letteratura e nel genere letterario e con questo fa di una storia (apparentemente) semplice un grande romanzo.
Ma per essere sicuri bisogna aspettare il prossimo libro di Fonseca, che si spera Fazi traduca al più presto. Pochi sono i libri di questo autore, per altro introvabile, pubblicati vent’anni fa almeno dalla casa editrice Il Saggiatore.
Parte della bellezza del romanzo sta anche nella traduzione di Daniele Petruccioli, traduttore consolidato, oltre che scrittore di un certo spessore (entrato nella dozzina dello Strega un paio di anni con uno straordinario romanzo).
Nato nel 1925 nello Stato del Minas Gerais, Rubem Fonseca ha conseguito la laurea in Giurisprudenza, specializzandosi in Diritto penale. Ha svolto diverse professioni, tra cui quella di poliziotto, prima di dedicarsi interamente alla letteratura. Celebre e controverso in patria, tradotto in diciannove lingue e stimatissimo all’estero, è riuscito a essere un autore bestseller pur senza fare alcuna concessione al suo pubblico. Tra gli innumerevoli premi ricevuti, il Premio Camões – il principale riconoscimento per un’opera in lingua portoghese –, il Premio Machado de Assis dell’Accademia Brasiliana delle Lettere e il Premio Iberoamericano de Narrativa Manuel Rojas.
Bella recensione.
Il libro così raccontato sembra interessante!
Lo leggerò
"Mi piace"Piace a 1 persona
Claudio riesce a incuriosire molto con le sue recensioni!
"Mi piace""Mi piace"
Ottima recensione!
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie!
"Mi piace""Mi piace"
Bellissima recensione!
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie!!!
"Mi piace""Mi piace"
Bella recensione a quando la prossima?
"Mi piace"Piace a 1 persona
Presto!
"Mi piace""Mi piace"