Dunque, io sono il Coro. (..) Sono l’unico a rompere la quarta parete. L’unico ad accettare la finzione del mio ruolo. L’unico a spezzare l’illusione. Lo spettatore mi vede, l’attore m’ignora. Sono sul palco, ma al margine.
La quarta parete, di Sorj Chalandon, Keller editore 2016, traduzione di Silvia Turato, pagg 283, Premio Terzani 2017
Nel gergo teatrale, la quarta parete sta tra gli attori e il pubblico: è “una facciata immaginaria, che gli attori costruiscono a bordo scena per rafforzare l’illusione. Una muraglia che protegge i loro personaggi. Per alcuni un rimedio contro il panico. Per altri il confine del reale.”
La quarta parete è nel romanzo un muro da abbattere, per unire pubblico e attori, tutti coinvolti in una rappresentazione teatrale che dalla finzione transita verso la realtà, cercando di abbattere i muri che dividono fazioni politiche, religiose e identitarie nel Libano oppresso dalla guerra. Il teatro della vita, per celebrare la vita, contro la morte che annienta le persone, un teatro della gente tra la gente. E in scena deve andare una rappresentazione dell’Antigone di Anouilh, ispirata alla tragedia di Sofocle: allestita da Anouilh nella Parigi occupata dai nazisti e scelta come opera da rappresentare nel Libano in guerra.
Georges, il protagonista, viene in contatto con quest’opera a Parigi, durante la contestazione studentesca degli anni Settanta. Contestazioni violente, a cui Georges prende parte nelle file della sinistra estrema; lotta contro l’establishment, a favore delle cause che in quegli anni infervorano le masse giovanili, come la liberazione della Palestina. Georges, studente della Sorbona, conosce Samuel Akounis, ed è lui che gli parla dell’Antigone: lui è greco, rifugiato in Francia perché oppositore del regime dei colonnelli, che lo hanno perseguitato. Un destino che lo accomuna alla sua famiglia, ebrei di Salonicco, deportati ad Auschwitz, e lì annientati. Samuel è un regista teatrale e anche Georges è interessato al teatro; tra loro nasce un’amicizia profonda, una sintonia che li porta a stringere un patto.
Samuel ha un sogno: vuole rappresentare l’Antigone a Beirut, negoziare due ore di tregua tra le parti, per mettere in scena la tragedia e opporre la cultura, il teatro, alla barbarie della guerra. E per tentare di aprire un dialogo. La rappresentazione dovrà essere allestita impiegando attori presi sul posto, a rappresentanza di tutte le fazioni: Creonte è un cristiano maronita, Antigone è palestinese, Emone (il fidanzato di Antigone) è druso, le guardie sciite. Samuel ha già preso i contatti necessari per coinvolgere i diversi schieramenti, ha già scelto anche il luogo per la rappresentazione: il proscenio del cinema diroccato Beaufort, sulla linea di confine. Ma la sua salute peggiora: è costretto in un letto d’ospedale, a Parigi, e da lì non ha più alcuna speranza di rialzarsi. Aveva previsto anche questo, e aveva lavorato per superare se stesso.
Georges, nel frattempo, disilluso ha messo da parte i sogni ribelli della gioventù, si è sposato, ha avuto una figlia e sembra essersi adagiato su una vita familiare che lo appaga. Ma, di fronte alla richiesta di Samuel di portare a compimento il sogno al posto suo, Georges sa che non può tirarsi indietro. Sa che deve partire per Beirut e provare a realizzare la messa in scena dell’opera.
L’arrivo a Beirut è scioccante; un conto sono le lotte studentesche, gli scontri con le forze dell’ordine e con i “ratti neri” – gli studenti di estrema destra – seppur nella crudezza della violenza delle spranghe e dei lacrimogeni, un altro conto è la guerra, quella vera, a cui Georges si trova di fronte, impreparato e annichilito.
Un sorriso di Louise e una carezza di Aurore erano le cose al mondo che mi rendevano vivo. Me lo ripetevo. Ma non ne ero più così sicuro. Allora ho avuto paura, davvero, per la prima volta dal mio arrivo. Non paura degli uomini che uccidevano, né paura di quelli che morivano. Paura di me.
Il terrore che prova ai posti di blocco, i cecchini appostati ai piani alti di palazzi crivellati di colpi, la distruzione e le condizioni di vita precarie e misere, il campo profughi di Shatila: ora non sono più immagini trasmesse dai telegiornali, sono la realtà che ha intorno, quella in cui migliaia di persone cercano di sopravvivere e a cui l’Antigone deve chiedere una tregua. E tutto questo fa paura perché fa vacillare le sicurezze, mette alla prova il proprio senso della vita e della giustizia: come si reagisce di fronte a questa violenza? Si riesce a non farsi contagiare, o se ne viene inghiottiti?
La pistola di un druso, il fucile di un cristiano. Ero in compagnia dell’acciaio, non del cuore umano.
Georges si fa molte domande mentre si muove in questo scenario di morte. Ma continua lo stesso a lavorare al progetto, vuole tenere fede al sogno di Samuel, portarlo a compimento perché, forse, l’amico ha ragione. Riesce ad organizzare degli incontri con gli attori che Samuel aveva scelto, e porta loro le copie del testo di Anouilh; riesce anche ad organizzare una specie di prova generale. Ma poi tutto precipita.
A Georges tocca in sorte di assistere in presa diretta alla tragedia, quella vera: il massacro nei campi profughi di Sabra e Chatila, il 18 settembre 1982. E niente sarà più come prima. E anche Georges avrà la sua parte nella tragedia, non più il coro, ma uno di loro, e la sua quarta parete si dissolverà sotto i colpi di un carro armato.
La voce dello scrittore si sente forte in questo romanzo, a metà tra verità e finzione, dove il vero sono la morte e la guerra, quelle che lui ha visto in prima persona, come reporter di guerra, nel teatro del Libano, quel palcoscenico che non ha mai visto rappresentare l’Antigone, ma la tragedia vera, i morti veri, quelli che a migliaia ripetono la storia di sempre:
Morti uguali, tutti, stecchiti, inutili, marciti. E quelli che ancora vivono cominceranno dolcemente a dimenticarli e a confondere i loro nomi.
E allora, cosa resta di questo sogno, o speranza, se vogliamo allargare il senso? Resta la consapevolezza che se alla guerra si oppone solo altra guerra, rimane solo un mondo bruciato, privo di vita; forse, la speranza risiede solo nella cultura intesa come comprensione, come possibilità di avvicinare gli opposti, come medium di conoscenza e scambio, un dialogo pacifico e costruttivo.
Qui potete leggere l’incipit. Qui trovate la mia recensione al romanzo “La professione del padre“, di Chalandon.
Bellissimo articolo, complimenti.
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ti ringrazio
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Direi che anche questo romanzo, per colpa/merito della tua bella recensione finirà dritto dritto in wishli. Sarebbe anche l’occasione giusta per leggere, finalmente, Antigone (intanto leggerò la versione di Anoilh: grazie per il link). Come non condividere le tue considerazioni finali? Buon week-end e buone letture!
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La parte del romanzo ambientata a Beirut è molto realistica, gli effetti della guerra e dell’attacco al campo profughi sono descritti senza filtri. L’autore, che è stato reporter di guerra, ha purtroppo conosciuto bene questa realtà e l’ha trasposta nel romanzo per dare il pugno nello stomaco al lettore, per far capire cos’è davvero uno scenario di guerra. A me piace molto lo stile di scrittura di Chalandon: diretto, ficcante per scavare fino alla radice di sentimenti e comportamenti, ma anche poetico.
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