Mi ha sempre inquietato l’idea di morire in un paesaggio di alberi ottobrini. C’è qualcosa di poco convincente in questo, qualcosa di banale. In qualche modo è indecente morire in autunno. È kitsch morire in autunno, quando muore tutto il resto. Insieme alle foglie. (pag. 11)
Me’med, la bandana rossa e il fiocco di neve, di Semezdin Mehmedinović, Bottega Errante edizioni 2020, traduzione di Elvira Mujčić, pagg. 208
Come si fa a dire che un libro ci è piaciuto? Magari diciamo che ci ha fatto riflettere, che ci ha stupiti, o spaventati, o divertito. Dipende. Dal libro, ovviamente, e poi da noi nel momento in cui l’abbiamo letto, dalle nostre esperienze passate… insomma da tanti aspetti. Uno degli indizi che, nel mio caso, rendono evidente quanto mi sia piaciuto un libro, sono le sottolineature. Ebbene sì, ho questo vizio: sottolineo come una forsennata, metto commenti a margine, appiccico linguette a tutto spiano.
Ecco, questo libro è pieno di tutto ciò. Faccio prima a dire che non è superfluo nemmeno un vocabolo, una virgola, un punto… Un libro di cui ogni pagina è un incanto.
Per descriverlo, dirò che si tratta di un memoir; un diario autobiografico in cui si sommano fatti, emozioni, memoria.
La voce narrante è Semezdin, che diventa Me’med quando, ricoverato in ospedale per un infarto che l’ha colpito nel suo cinquantesimo anno di vita, si trova davanti un medico che non riesce a pronunciare il suo nome. Da qui parte la prima parte del racconto. Me’med è un profugo, che ha lasciato Sarajevo dopo il lungo e sanguinoso assedio che l’ha devastata durante la guerra degli anni Novanta; Me’med è rimasto nella città assediata, anche se il figlio aveva paura, e se n’è andato a malincuore, quando non restava altro da fare. È emigrato negli Stati Uniti, dove vive da anni, dove si è costruito una carriera letteraria, ma dove ancora si sente straniero. È arrivato nel paese del sogno americano, ormai sfumato e sempre più incline al razzismo; dove il figlio lo chiama Sem, un nome più accettabile per chi dimostra odio verso gli immigrati, soprattutto se musulmani e con un accento slavo.
I miei desideri non erano grandiosi, eppure nessuno si è avverato. Bramavo una piccola finestra dalla quale si vedesse dell’acqua azzurra. Avevo immaginato che da cinquantenne avrei vissuto una vita tranquilla, il mio tempo dedicato alla scrittura. Desideravo un bar all’ombra dove incontrarmi con gli amici, di sabato o di domenica prima di pranzo, per denigrare il nostro passato. Invece sono finito come un esiliato nel grande continente, solo e senza interlocutori. Straniero. E per di più mi sono abituato a questa solitudine, l’ho accettata come un premio per tutti gli errori che ho fatto nella vita. E come un baratto per i desideri non esauditi. (pag. 85)
Dopo cinque anni di cure, Semezdin viene a sapere che il farmaco che assume per scongiurare altri infarti, può comportare una perdita di memoria; e allora si domanda cosa ne sarebbe di lui se perdesse la memoria, se non riuscisse più a riconoscere i volti familiari, la sua vita passata…. Non sarebbe come morire? Ha forse già cominciato a dimenticare qualcosa?
(Zabrinskie Point: photo credits by Greg Boratyn)
Pungolato da questa urgenza, decide di partire da Washington dove ora vive e di raggiungere suo figlio Harun in Arizona, a Phoenix, la prima città in cui hanno abitato da profughi, per accompagnarlo in un viaggio di lavoro on-the-road nel deserto, dove deve realizzare dei servizi fotografici. Il viaggio diventa l’occasione per condividere un tempo con il figlio, di stare fisicamente e mentalmente insieme. Di “rammendare” ricordi sfilacciati, una memoria comune di cui Semezdin non vuole perdere tasselli.
Un viaggio nello spazio fisico e un viaggio nella memoria: ad ogni tappa, ad ogni paesaggio – soprattutto notturno -, Semezdin associa un ricordo, che risale indietro fino agli anni di Sarajevo, ai volti e alle sensazioni di un’altra vita, e poi, avvicinandosi al presente, agli anni dell’esilio negli Stati Uniti, dove spesso hanno cambiato casa, portandosi dietro poche cose, se non un pesante bagaglio di ricordi, qualcosa che niente e nessuno ti può più rubare e che ti aiuta a non perdere l’identità.
La fotografia dà una forma alla memoria. Quando osservo il mio passato, così come esiste nelle foto, ho l’impressione che io non sia solo una, ma almeno una decina di persone diverse. (pag. 158)
Nella terza parte, Sanja, la moglie, viene colpita da un ictus: si riprende ma subisce i danni permanenti di una perdita di memoria a breve termine. I suoi ricordi passati sono ancora là, ma è come se la sua vita si fosse fermata nel passato…
E allora non ho cuore di dirle che la nostra gioventù, la nostra vita da studenti, da un pezzo ce le siamo lasciate dietro, in un passato che per il nostro bene sarebbe meglio dimenticare, in una nazione che ufficialmente non esiste più, in un mondo che non esiste più. (pag. 1243)
Si ribaltano dunque i ruoli… se prima era lei a prendersi cura di Semezdin, dopo l’infarto, ora è lui ad accudire la moglie, a cercare di ancorare la sua memoria al presente, ad evitare che venga inghiottita dall’oblio. In questa impresa amorosa, fatta di gesti e di parole, Semezdin tenta di tenere insieme il loro comune bagaglio di vita, veicolato attraverso la propria lingua madre, lo strumento identitario attraverso il quale la memoria testimonia la consistenza di una vita.
Il mio mondo è nella mia lingua, non ho mai scritto nella lingua del Paese dove ora abito. Per essere davvero accettato, per trasformarmi da estraneo a cittadino, la prima condizione è il passaggio alla nuova lingua. E va bene. Io ho scelto di rimanere straniero. (pag 91)
Dunque un memoir carico di nostalgia, un diario che Semezdin scrive per il figlio, per trasmettergli qualcosa di sé che magari non si riesce a dire a parole; qualcosa che tenga viva la memoria prima che l’oscurità dell’oblio inghiotta tutto ciò che prima era palpitante e reale.
Semezdin Mehmedinović (nato nel 1960 a Kiseljak, Bosnia-Erzegovina). Dopo aver studiato Biblioteconomia e Letteratura comparata a Sarajevo, ha lavorato come redattore delle riviste “Lica” e “Valter”, che fungevano da voce di opposizione al regime comunista al potere. Mehmedinović ha pubblicato il suo primo libro di poesie “Modrac” nel 1984 e il suo secondo libro “Emigrant” nel 1990. Poco prima della guerra in Bosnia, nel 1991, ha fondato la rivista culturale “Fantom slobode” (trad. “Phantom of Freedom”) . Quando scoppiò la guerra nel 1992, Mehmedinović rimase a Sarajevo con la sua famiglia. Lo stesso anno, ha pubblicato una prima versione di “Sarajevo Blues” .
Nel 1994, durante la guerra in Bosnia , Semezdin e Benjamin Filipović hanno scritto e co-diretto il film “Mizaldo, kraj Teatra”. Nel 1996, dopo la fine dell’assedio di Sarajevo e la conclusione della guerra in Bosnia, Mehmedinović emigrò negli Stati Uniti e visse ad Arlington, in Virginia. Attualmente vive a Sarajevo.
“Me’med, la bandana rossa e il fiocco di neve” ha vinto il premio Mesa Selimovic e il premio Mirko Kovac come miglior romanzo dell’area balcanica.
questo non l’ho ancora letto! ma ho letto Sarajevo Blues, e mi era piaciuto molto, credo che dovrò proprio leggerlo! e a proposito io sottolineo anche a colori! ah ah e scrivo scrivo per fortuna a matita! bellissimo ed entusiasmante questo post
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Grazie Matilde!! È un libro molto coinvolgente 💜
Ci sono anche molti riferimenti letterari… Insomma. Un must
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Ottimo l’ho già ordinato
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Ti voglio come testimonial ufficiale di Bottega Errante: con le tue splendide e appassionate recensioni, mi fai venire voglia di mettere in wishlist il loro intero catalogo!
Anche per me – te lo avevo già accennato a proposito di certe Infondate ragioni 😉 – vale il principio dei passaggi da tenere a mente, o per essere più sentimentali, del cuore: non li sottolineo, ma li ricopio per usarli come punto di partenza quando scrivo i post :).
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E magari, così mi regalebbero qualche libro 😉
In effetti, nel loro catalogo la letteratura balcanica è molto presente, e visto il mio progetto di letture, è una di quelle da cui pesco di più….
Anche Nutrimenti ha molti titoli….
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