Dopo La fine, Salvatore Scibona torna con un romanzo vasto per immaginario e ambizione, un’opera che la critica americana non ha tardato a paragonare a Underworld di Don De Lillo, per il gioco di corrispondenze che intrecciano, in una trama serrata e imprevedibile, luoghi e periodi storici lontani, e per la maestria con cui muove le vicende individuali dei suoi personaggi nei gangli della storia ufficiale e di quella segreta degli Stati Uniti d’America. Ne Il volontarioSalvatore Scibona abbraccia l’epopea di tre generazioni di maschi americani in Iowa negli anni Cinquanta, in Vietnam negli anni Sessanta e a New York negli anni Settanta, per poi ricongiungersi in un futuro prossimo, punto in cui si apre il romanzo: incontriamo un bambino, Janis, abbandonato all’aeroporto di Amburgo nel 2010

Il volontario, di Salvatore Scibona, 66thand2nd, traduzione di Michele Martino, pagg. 439

Janis è il figlio di un soldato americano, Elroy Heflin, a sua volta figlio adottivo di Vollie-Tilly Frade – è lui, in definitiva, il volontario del titolo – soldato in Vietnam, arruolato per una missione fantasma, che riscrive la sua vita anni dopo con Louisa e il piccolo Elroy in una comune hippie nel New Mexico. Al di là delle loro esistenze singole e degli avvenimenti che accadono, Vollie, Elroy e Janis sono l’evoluzione della medesima persona, desiderosa di scappare, di rendersi invisibile per espiare una pena che scopriamo ereditaria: alcuni peccati si tramandano senza via di scampo e ci sono errori che i figli sono condannati a fare, esattamente come i padri.

Le spirali attorno cui si evolvono le vite raccontate sono fatte della medesima sostanza e ogni luogo narrato (Queens, New Mexico, Germania, Lettonia e Afghanistan) è abitato da violenza, perdita, abbandono e rimorso. 

Da Vollie a Janis, passando per tutte le pagine che si ascrivono ora a romanzo familiare, ora a spy story, ora a storia di guerraIl volontario è un romanzo fatto di mancanze. Per ogni codardia descritta, momenti in cui qualcosa è smarrito, c’è la possibilità di avvicinarsi al segreto del mondo, un segreto scavato nelle viscere, nelle profondità dell’umana bruttura – la guerra in Vietnam ne è emblema: Scibona sembra suggerirci che l’imprescindibile risiede molto più all’inferno che in paradiso, nelle scelte equivoche rispetto a quelle cristalline, negli atteggiamenti meschini più che in quelli onorevoli. 

La sostanza de Il volontario non sta nel descrivere l’epopea del singolo in cerca di qualcosa, ma l’epica della perdita di ogni cosa, viatico per arrivare a una profonda comprensione del mondo. E non a caso il romanzo si apre proprio con una perdita, quella più atroce, in cui un bambino si ritrova da solo, abbandonato. Quel bambino è Janis e chi lo ha abbandonato è Elroy, un figlio di nessuno preso in carico da una donna e dal suo uomo, con cui vive per qualche tempo: Vollie. 

Questa traccia letteraria sembrerebbe in direzione contraria a quella intrapresa nel romanzo d’esordio, La fine (66thand2nd, 2011; traduzione italiana di Beniamino Ambrosi), dove al centro della narrazione c’era una comunità italo-americana di Cleveland la cui storia partiva dal 1953: il tempo e lo spazio, che si allungavano nel passato sino alla fine dell’Ottocento, così come i protagonisti, erano perfettamente visibili e circostanziati. Scibona dichiaratamente si ispirava alla sua bisnonna italiana, alle vicende degli immigrati e alle radici di una specifica generazione di italo-americani. 

La fine ragionava sui singoli che tratteggiavano la condizione di una minoranza intera, di un popolo, delineava un terreno socio-culturale specifico: raccontava da dove iniziava la storia. Ne Il volontarioScibona rincorre il futuro, prosegue nel tempo e idealmente l’epopea umana cominciata ne La fine. Rocco, Costanza, Lina, Enzo e Ciccio sono gli antenati di Vollie, Elroy e Janis, ma non è una questione di famiglia, è una questione umana. L’eredità che i tre si portano dietro riguarda l’umana condizione e se la trama e lo spazio hanno una struttura propria (dall’Ohio all’Iowa; dal viaggio negli Stati Uniti al viaggio per il Mondo) nei due romanzi, l’essere umano si somiglia.

Il racconto ne Il volontario si amplifica, si ingrandisce, esplodendo: i personaggi de La fine hanno compreso una cosa fondamentale che Ciccio in particolare, l’adolescente che vuole aprirsi al mondo, ci fa intuire: la fine non esiste, perché tendiamo sempre a un desiderio che sta altrove, a volere ciò che non abbiamo – un ottimista qualcosa che non ha ancora, un pessimista ciò che non avrà mai – e non c’è modo di sfuggirne.

Ne La fine Scibona era riuscito a raccontare la storia di quei protagonisti come fosse quella di chiunque, e aveva preparato il terreno alla narrazione dei nessuno ne Il volontario. La sua lirica attraversa questi due poli e li sfilaccia per poi ricongiungerli sempre: il “chiunque” da un lato e il “nessuno” dall’altro, in ogni caso vinti.

Ne Il volontario, il desiderio di arrivare è terminato, abitare il momento presente è più importante, cercare di ritagliarsi un’esistenza funzionante è l’unica cosa che conta; i personaggi si muovono conoscendo già cosa accadrà e dunque tentano continuamente di fuggire. A nulla valgono i rapporti familiari, i figli, l’amore, le relazioni che instaurano, perché l’approdo è già scritto e non si può cancellare. 

La narrazione zooma ora dentro ora fuori dalla Storia, dandoci l’idea di assistere a un movimento ora pieno ora vuoto, in cui i personaggi cercano di costruire qualcosa – un’occasione, un lavoro, una famiglia – ma poi rinunciano per diventare nessuno. Scibona ci dà l’opportunità di vederci ma anche di nasconderci, esattamente come le figure che costruisce: ci chiede un esercizio di esemplificazione di noi stessi in cui, ogni volta in cui torniamo indietro e lo zoom si chiude, anche noi abbiamo perso qualcosa, costretti dall’inevitabile: una forza misteriosa e oscura che guida i destini e gli eventi e può essere percepita ma mai vista in completezza; possiamo osservarla solo nelle conseguenze, puntuali nelle pagine successive, come una solida tradizione di famiglia

La voce dell’autore, a sua volta, si mostra e si nasconde, e dice molto di ciò che vorrebbe che fossimo come lettori rispetto all’umana consistenza, prima che esistenza: testimoni imparziali. In una sua recente riflessione, pubblicata dal New York Times e tradotta da Fabio Galimberti per La Repubblica, Salvatore Scibona scrive: “In quest’epoca di boom delle recriminazioni, abbiamo bisogno di un metodo che ci consenta di riservare la nostra indignazione per quei casi che valgono la pena, che meritano il tributo che impone agli altri e a noi stessi. Per il bene sia delle persone ingiustamente additate al pubblico ludibrio sia della nostra salute mentale, potremmo cercare di usare un’alternativa al giudizio. Quest’alternativa possiamo trovarla nella letteratura, a mio parere. Sto parlando di storie che prendono una persona ordinaria e la osservano, per ore e anni, dentro e fuori, e si sforzano di essere, se non obiettive, almeno equanimi”.

Per approfondire, vi suggerisco l’articolo di Libroio Conca apparso su Minima&Moralia.

Salvatore Scibona, italoamericano, è nato in Ohio. La fine (66th and 2nd, 2011) è il suo primo romanzo. Il volontario è stato finalista nel 2008 del National Book Award, nel 2009 vince il Young Lions Fiction Award e il Withing Writers’ Award. Quest’anno l’autore è stato selezionato dal New Yorker tra i venti più grandi scrittori under quaranta di lingua inglese.

(credits: Elena Marinelli; redazione de Il libraio, gruppo GEMS)

INCIPIT

Tilly diceva a tutti di essere nato a Davenport, Iowa. Sui certificati di nascita e battesimo figurava in effetti un indirizzo di Davenport, il 14 di Greeley Street. E se qualcuno obiettava che sulle cartine odierne della città era impossibile trovare una via con quel nome, lui rispondeva che era solo un tratto di strada con servitù di passaggio in mezzo a un gruppo di baracche su una piana alluvionale: la posta non ci arrivava nemmeno. In base ai certificati era nato il 14 novembre del 1948 da Ida Elizabeth Tilly, vent’anni, e da padre ignoto. Il foglio di congedo dal corpo dei marine riportava la stessa data, ma nel 1947. Per il resto, tutti i suoi documenti erano concordi.
In realtà, quella donna di nome Ida Tilly non era mai esistita. E la persona che sarebbe diventata Dwight Elliot Tilly non era nata
nel 1948 né nel ’47, bensì nel 1950. Non a Davenport, ma in una fattoria di duecentosettantotto acri nelle praterie a nord della città, vicino al piccolo insediamento di Calamus. E non era il figlio di Ida Tilly ma di Annie Frade, quarantasei anni, e di Potter Frade, cinquantatré.
I Frade si erano sposati solo un anno prima, entrambi per la prima volta. Un matrimonio misto tra una cattolica e un presbiteriano. La mattina dopo le nozze, si erano svegliati tutti e due con la certezza di aver fatto la scelta sbagliata. La maggior parte delle cose
che sapevano le avevano imparate dall’allevamento del bestiame. Se pure avessero covato l’inverosimile speranza che nonostante
l’età i loro sforzi gli avrebbero regalato un figlio, erano troppo imbarazzati per confessarlo.

Annie diede alla luce quel bebè inatteso nel salotto dei Frade, con le pagine del «Quad-County Advertiser» sparpagliate sul tappeto. Potter Frade, esperto nell’assistere ai parti, lo raccolse tra le braccia, lo pulì con un canovaccio da cucina e gli applicò la tintura di iodio sull’ombelico. Annie esaminò il neonato, non ci trovò niente fuori posto e se lo attaccò al seno, e il piccolo iniziò a poppare lottando con l’aria. Era forte e arrabbiato. Se fosse stato un vitello, sarebbe già stato in grado di camminare. Ma sembrava piuttosto il seme di una pianta rimasto in giardino durante l’autunno, sopravvissuto alla neve e germogliato per conto suo in primavera. Perciò iniziarono a chiamarlo il Volontario. E in seguito solo Vollie. Il vero nome nessuno lo usava mai