Tutto il presente è insignificante e futile se non porta alle parole e se le parole non portano a lui. Solo le parole giustificano in qualche modo l’esistenza delle cose, danno un senso all’attimo, rendono reale l’irrealtà, mi rendono me stesso. Vedi Sašen’ka, ho vissuto in una sorta di alienazione dalla vita. Tra me e il mondo è cresciuta una cinta di parole.

Punto di fuga, pag. 205

Punto di fuga, di Mikhail Shishkin, 21 lettere 2022, traduzione dal russo di Emanuela Bonacorsi, copertina di Jacopo Starace, pagg. 392, vincitore del Premio Strega Europeo 2022

Arriva in Italia, grazie a 21 lettere, il romanzo Punto di fuga (in originale Pismovnik) dello scrittore russo Mikhail Shishkin. Pubblicato nel 2010, è stato tradotto in molti paesi, raccogliendo critiche molto positive, come del resto è accaduto ai suoi precedenti romanzi.

Il romanzo (come suggerisce il titolo originale) è la corrispondenza epistolare tra due persone, lui e lei, che si scambiano lettere mentre lui è in guerra. Vovka, Volodya o Voloden’ka (Vladimir), sta combattendo una guerra lontana e brutale; Saška o Sašen’ka (Alexandra), scrive da casa, dalla sua città. Già questo mi sembra una grande novità in controtendenza, dato che il romanzo epistolare (di cui abbiamo parlato qui) non è più un genere molto praticato. Ma in realtà questo è un espediente narrativo: un nutrito scambio di lettere che diventano come due diari paralleli asincroni in cui, a turno, i due protagonisti si raccontano il presente facendo molte incursioni nel passato, rievocando molti episodi delle loro infanzie e gioventù, e la “loro estate”. Si comprende presto che c’è uno sfasamento di tempo tra le due corrispondenze e che sono anche un espediente per porre riflessioni filosofiche ed escatologiche.

Gli avvincenti racconti sull’infanzia, l’amore e la vita attuale conferiscono al romanzo una spinta narrativa empatica, offrendo al lettore una serie di commoventi istantanee della vita in una città sovietica. Ci sono molti racconti del passato, ricordi custoditi nella memoria che al solo evocarli inteneriscono Sašen’ka. Come quando andava al mare con i genitori; seduta sul divano, attendeva il papà – che allora era direttore d’orchestra – per farsi leggere un libro, o le suonava il pianoforte per far sì che anche lei piacesse farlo e che la sgridava duramente quando la sorprendeva a leggere invece di esercitarsi. E poi, dopo, il padre è diventato un pilota d’aereo, cosa che ai suoi occhi lo rendeva ancora più affascinante. Di lui le piaceva quando le leggeva libri che parlavano di paesi meravigliosi, soprattutto il libro che parlava del regno del Prete Gianni. E anche nelle lettere di Volodya si allude al regno di Prete Gianni. E poi gli anni dell’adolescenza, la ribellione contro la madre, gli studi di medicina.

Nelle lettere dei due amanti c’è tanta nostalgia, la voglia di riabbracciarsi, di scambiarsi gesti amorosi. Volodya è un aspirante scrittore, ossessionato dall’idea della morte e spinto dalla voglia di “sentire la vita”, si arruola volontario nella guerra dei Boxer dei primi del ‘900. La narrazione di Volodya racconta la storia della ribellione dei Boxer e del suo dispiegamento, con un reggimento russo, per alleviare l’assedio di Tianjin, insieme alle truppe americane, inglesi, francesi e giapponesi. Le sue ultime lettere raccontano la presa della città e il suo dispiegamento a Pechino. Le lettere di Vovka ricordano anche il passato, ma è più spesso impantanato nel presente, nel conflitto che coinvolge soldati di molte nazionalità che marciano attraverso siccità, malattie e spargimenti di sangue nel nord della Cina. Uno dei temi ricorrenti di Shishkin è l’infinità del conflitto: “Ci sarà sempre una guerra per domani“. Ecco che tra le sue righe vengono sottolineate le condizioni abbruttenti della guerra, la ciclicità della morte che può apparire quasi rassicurante. Le lettere, variamente tenere e brutali, sono sottilmente interconnesse attraverso immagini e allusioni condivise.

Pensavo che la vita fosse una preparazione alla morte. Sai, una volta mi sono sentito come Noè, a cui fu rivelato che prima o poi sarebbe giunto il diluvio e la vita di tutti sulla terra sarebbe finita. Così deve costruire un’arca per salvarsi. Noè non vive più come gli altri, non fa che pensare al diluvio. Così anch’io ho costruito la mia arca. Solo che la mia arca non era fatta di tronchi ma di parole. Tutti intorno a me vivevano alla giornata, rallegrandosi dell’effimero, mentre io potevo pensare solo all’inevitabilità del diluvio e dell’arca.

Punto di fuga, pag. 270

La scrittura di Shishkin ha un andamento molto intimista, capace di mettere insieme fatti personali e pubblici e riflessioni filosofiche, sulla vita e sulla morte, sulla memoria; è anche fortemente evocativa e possiede una ricchezza di toni nella descrizione degli aspetti naturali, come quando evoca la pioggia sul tetto di una dacia, l’odore dei tigli in fiore o il fetore dei cadaveri umani. Vovka (invocando Gogol) vuole tagliargli il naso e rimandarlo a casa.

Questa labirintica narrativa epistolare risale alla premessa di un altro testo che tenta notoriamente di spiegare il rapporto tra la parola e l’essere umano che la scrive. Volodya ritorna al Nuovo Testamento, citando il primo versetto del Vangelo di Giovanni. Egli scrive perché scrivere è vivere e vivere è scrivere.

Saška e Vovka non sono solo separati dallo spazio, ma anche e soprattutto dal tempo. Le loro lettere si rincorrono a lungo nel romanzo e molto spesso non si rispondono. Vovka spedisce le sue lettere dal fronte nel corso di pochi mesi di guerra mentre Saška scrive e risponde all’amato per anni fino quasi al presente. I due si rivolgono idealmente l’uno all’altro ma non si rispondono, e questo suggerisce che Volodya sia stato ucciso. Ma le sue parole sopravvivono. Nel linguaggio, siamo sempre nell’eterno presente, in modo che, in una delle sue ultime missive, Volodya possa sussurrare: “Dopotutto, sono vivo, Saška”. La morte appartiene al tempo, e il tempo oscilla in questa straordinaria narrazione e alla fine si ripiega su se stesso. Nelle lettere, sembra dire, siamo sempre le persone che eravamo quando le scrivevamo: siamo sempre giovani, siamo sempre innamorati.

Punto di fuga è un libro che si può definire sentimentale, dato che prende come argomento il sentimento d’amore umano, in tutte le sue infinite varietà e con tutte le sue amare complicazioni, le sue speranze indefinite, i suoi momenti di trascendenza e di grottesco. Come dice Volodya, è anche una narrazione sulla morte. La morte, tuttavia, non è mai la fine della storia.

Qui potete leggere l’incipit.

Mikhail Shishkin è nato a Mosca nel 1961, da metà degli anni ’90 vive a Zurigo dove lavora come insegnante e traduttore per i rifugiati. Si dedica alla scrittura a partire dagli anni ’90. Nel 1993 pubblica il suo primo romanzo Zapiski Larionova (Le reminiscenze di Larionov) che gli vale il premio per il miglior debutto dell’anno. Trova la fama nel 1999 con la pubblicazione di Vzyatie Izmaila (La presa di Izmail, edito in Italia da Voland) che gli vale il Russian Book Prize. Nel 2005 pubblica il capolavoro Venerin volos (Capelvenere, edito in Italia da Voland) premiato con il National Bestseller Prize e nel 2008 con il premio Grinzane-Cavour.

Mikhail Shishkin, unico a vincere i tre più importanti premi letterari russi (Russian Booker Prize, Russian National Bestseller, Big Book Prize), vincitore del premio Grinzane Cavour nel 2008, è stato definito dal Guardian il migliore romanziere russo vivente. Le sue opere sono tradotte in più di trenta lingue. Oppositore del governo Putin, da anni è impegnato nella valorizzazione della cultura e della letteratura russa.