E’ stato annunciato il secondo Bookrave, il progetto condiviso che riunisce otto case editrici, librerie, lettrici, lettori e gruppi di lettura, autrici e autori. Bookrave è un festival diffuso che vuole essere divertente, informale, originale.


Dal 15 marzo al 15 giugno in tutte le librerie aderenti troverete un’esposizione speciale dedicata ai libri del progetto, alcuni gadget e materiali di approfondimento.

Conclusa con grande successo e adesione la prima edizione (ve ne avevo parlato QUI), in cui il tema era stato CORPI, eccoci ora al secondo appuntamento, il cui tema è RADICI. Un tema che si ricollega ad alcune parole chiave più importanti del nostro tempo: memoria, ricerca, famiglia e identità. Un tema che merita di essere esplorato, naturalmente partendo dagli otto libri che le case editrici aderenti al progetto propongono.

Vediamo quali sono gli otto libri proposti dalle case editrici aderenti al progetto:

Un pittoresco quanto assurdo Oriente trasportato in Occidente, i bizzarri e mai risolti legami familiari tra più generazioni, una improbabile e sconclusionata ricerca delle origini dello yoga: è un guazzabuglio che irrompe nella vita di Silvio proprio nel momento in cui tutto sembra sfuggirgli, proprio quando la sua identità si fa evanescente. Con una dose non comune di autoironia si viaggia in motorino alla ricerca di sé, di qualcosa che ricorre di padre in padre, di gesti quotidiani che forse sono la sintesi di tutto: radici che sembrano lontanissime e sfuggenti, e che invece forse sono giusto qualche isolato più in là.

Malachy Tallack ha vissuto tutta la vita sulle isole Shetland. Quel paesaggio aspro – rocce sferzate dal mare, vasti pianori calvi e valli dove rigoglia una vita sotterranea, pascoli spazzati dal vento, case aggrappate alla pietra – è sinonimo del suo orizzonte: l’infanzia, gli amici, i pomeriggi a pescare nei torrenti. Quando suo padre muore, però, il legame si spezza, e Malachy parte: decide di girare il mondo seguendo il 60° parallelo nord, lo stesso che attraversa le Shetland. Questa traccia invisibile lo porterà dalla Groenlandia alle isole Åland, passando per il Canada e la Siberia, all’inseguimento di una domanda: come vivono le genti del grande Nord, in perenne lotta con un paesaggio che pare ribellarsi alla presenza umana? Su un sentiero svedese dove la neve sembra indisturbata da secoli, Malachy fa esperienza di una solitudine ancestrale, ma l’illusione è spazzata via, a valle, da orde di turisti alla ricerca frenetica di una «vera esperienza selvaggia». In Alaska, Malachy aiuta un amico del college a costruire una baita sull’orlo sdrucciolevole di un ghiacciaio, e i giorni sono una battaglia, ma le notti una scoperta: le luci nel cielo stellato sembrano falò di dei. Ogni escursione, ogni incontro sulla strada – o in una sauna dove ripararsi dal freddo – è un’occasione per riflettere sul senso di comunità, memoria e natura, finché, passo passo, Malachy tornerà al punto di partenza, le Shetland: le vecchie ferite non sono ancora chiuse, ma il ragazzo arrabbiato che è partito tempo prima è diventato uomo, ha ritrovato la strada di casa.

Quando sua nonna comincia a perdere la memoria, Kim cerca di riempire i silenzi scavando nei ricordi dell’infanzia, finendo in balìa di un’infinita rabbia e di una terribile tenerezza. Le famiglie sono così: nascondono e sotterrano, deridono e feriscono ma allo stesso tempo cullano e proteggono. Per cambiare la propria storia bisogna prima di tutto conoscerla e per questo Kim decide di ricostruire il suo albero genealogico. I rami della sua storia famigliare brulicano di corpi femminili, che hanno assunto forme diverse e hanno indossato vite che non corrispondevano alla loro perenne tensione verso la libertà. Kim deve iniziare a guardare sotto le ferite evidenti, sotto quelle celate, quelle ereditate e lasciare che finalmente il dolore sgorghi, come un’alluvione che cambia le sorti di quello che investe. Tutti cerchiamo da sempre un modo per parlare di noi e di quello che portiamo scritto nel sangue, pur sapendo che non è sufficiente la lingua di tutti i giorni per dire l’indicibile. È necessario inventarsi un linguaggio nuovo per raccontare la sostanza di cui siamo fatti: una lingua ma(d)re. Una lingua che «è gocciolare, cadere, confondersi, scorrere, radicarsi, fluire». Perché questa è la magia dei racconti: saper tessere la presenza dall’assenza. Una volta imboccata la strada della ricostruzione, tornare al punto di partenza è impossibile. Nella chiusura del cerchio la linea finale manca di qualche millimetro la linea iniziale e quella che sembrava una forma perfetta è in realtà piena di spigoli smussati, come un corpo non conforme.

Grande presenza-assenza in tutta la produzione letteraria di Offutt, il Kentucky è il sostrato emotivo che unisce i nove racconti di «A casa e ritorno». L’attrazione magnetica esercitata dai boschi e dalle colline in cui i protagonisti di queste storie sono nati e cresciuti si traduce ora in vicende lineari, di fughe e ritorni, ora in narrazioni più complesse e indirette. I temi portanti restano però gli stessi: l’impossibilità di andarsene davvero, di lasciare casa; il peso del passato e dei ricordi; l’attrazione irresistibile verso quelle «terre di nessuno», ingrate e crudeli, che si sono radicate a fondo nell’anima di tutti i personaggi. Ricorrendo a quella portentosa combinazione di realismo minuto e accensioni grottesche e magiche che rappresenta il suo inconfondibile marchio di fabbrica, Offutt racconta storie di camionisti, sceriffi, giocatori d’azzardo, pugili dilettanti ed ex carcerati, uomini e donne che affrontano disastri familiari per ritrovarsi a «crescere figli di altri mentre un estraneo si prende cura dei tuoi»: personaggi indimenticabili nel loro isolamento, nella loro impermeabilità alle regole della convivenza civile, nella durezza che, ben lungi dal cancellarla, cristallizza la forza dei sentimenti e dei legami.

K ha nove anni e vive a Los Angeles con i genitori iraniani e i due fratelli maggiori, Shawn e Justin. Desidera solo diventare un vero american boy, con un nome facile da pronunciare e i vestiti giusti, mentre suo padre, Baba, non ha un lavoro, sperpera il denaro che la moglie porta a casa e accusa i figli di rinnegare il paese d’origine – un paese che loro non conoscono. Nonostante i limiti imposti da Baba, K è un figlio obbediente, eppure si sente sbagliato: vorrebbe essere forte e sicuro come Shawn e Justin, ma quando scopre di provare dei sentimenti per il suo amico Johnny non riesce a confidarsi nemmeno con loro. Finché un giorno tutto precipita: Baba rapisce i figli e li porta in Iran, e il viaggio è un’esperienza sconvolgente di cui K subisce le drammatiche conseguenze. Tornati a casa, K e i suoi fratelli crescono lontano dal padre in un’America che dopo l’11 settembre è sempre meno accogliente, e imparano cosa significa diventare uomini seguendo le proprie aspirazioni.

Non è stata un’irrefrenabile vocazione all’insegnamento che ha portato Alessandro Gazzoli a fare il professore di italiano in un Centro per l’Educazione degli Adulti frequentato in prevalenza da immigrati, né una qualche predilezione per quel “maelstrom educativo rifuggito da tutti” che è una scuola per stranieri. È stata piuttosto una miscela di urgenze e caso a prenderlo in contropiede e fargli imboccare questa via spiazzante, con la sua altalena di entusiasmi e avvilimenti, intralci da appianare e domande da porsi. Che cosa significa insegnare in una classe dove convivono nazionalità e culture che sembrano incompatibili tra loro? Che forma prendono i dialoghi e i pregiudizi quando si mettono insieme destini e idee che altrove non si incontrerebbero mai? Dalle tragicomiche telefonate d’inizio anno scolastico per raccogliere le iscrizioni alle discussioni appassionate ed estenuanti su Dio, dal cammino trionfale del Marocco durante i Mondiali di calcio del 2022 alla scomparsa di una studentessa indiana che la famiglia vorrebbe costringere a un matrimonio combinato, Gazzoli racconta con humor, autoironia e alla larga da ogni tono enfatico la realtà – decisamente “fuori dal comune” – che incontra tra i banchi di scuola.

Qualcuno lo chiama “cerchio della vita”: si nasce, si cresce, si invecchia e chi è stato accudito a sua volta accudirà. Le grandi mani di mio padre è un commovente silent book che celebra al tempo stesso il rapporto tra un padre e un figlio e uno dei fondamenti della nostra esistenza: la cura dell’altro. Choi Deok-kyu, in una sorta di racconto autobiografico per immagini, narra due storie in parallelo, illustrando le mani di un padre che sostengono, nutrono, accudiscono il figlio e quelle altrettanto amorevoli di quel figlio ormai cresciuto che ripetono gli stessi gesti verso il padre divenuto anziano: un bottone da infilare, una scarpa da allacciare, un cucchiaio da imboccare, delle unghie da tagliare, dei passi da sorreggere… Gesti intimi, carichi di tenerezza, consapevolezza e responsabilità.

È il 1976, l’anno del bicentenario dell’indipendenza americana. Dana e Kevin sono una coppia mista – lei nera, lui bianco – che guarda con fiducia al proprio futuro nella tollerante e progressista California. Ma un giorno, mentre stanno sistemando i libri nella loro nuova casa, Dana si ritrova inspiegabilmente catapultata nel passato, nella piantagione schiavista dove vivevano i suoi antenati. Da quel momento il suo destino si intreccerà con quello di Rufus, il ragazzino dai capelli rossi figlio del proprietario della piantagione, e di Alice, una bambina nera nata libera in un mondo che fa di tutto per negarle quella stessa libertà. Dana dovrà rivedere le sue certezze di donna nera emancipata per adattarsi alla realtà, antica e incancellabile, che si trova di fronte, e tentare di salvare sé stessa e i suoi inconsapevoli compagni d’avventura.
Rielaborando il tema fantastico dei viaggi nel tempo e attingendo alla letteratura ottocentesca dei racconti di schiavi – ma innestandovi una consapevolezza razziale e una sensibilità femminile tutte moderne – Octavia Butler dà vita a un classico del secondo Novecento americano. Legami di sangue è un trait d’union ideale tra Amatissima di Toni Morrison e La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead, tra la fantascienza classica e la speculative fiction di Ursula Le Guin e Margaret Atwood: un romanzo capace di trasformare la coscienza del lettore superando i confini tra il reale e la fantasia, tra il passato e il presente, tra il «bianco» e il «nero».

Dunque un progetto pieno di spunti, di belle letture e di possibilità di confronto e di aggregazione. Seguite sui sociale le case editrici per essere aggiornati su tutti i dettagli organizzativi.