Estefanía si immaginò un grande banchetto di anziane dai profumi costosi e dalle pettinature ordinate, che in un ampio salone rimpinguavano le morbide carni con succulenti dessert, mentre i corpicini rigidi delle bambine perenni, adagiati su minuscole sedie, evitavano i loro sguardi. Forse ogni signora avrebbe raccontato la storia di ciascuna bambola, come le era errivata e fino a quando si era protratta la sua fiducia in lei, fino a quando era stata convinta che possedeva un’anima. Forse nel parlare delle bambole avrebbero modulato il timbro e la cadenza delle parole, e la vivacità delle voci infantili avrebbe interrotto per qualche tempo l’aridità di quelle gole vecchie. E le bambole lì, a scansare senza indulgenza ogni attimo di contemplazione. (pag. 94)
Gli azzardi del corpo, di María Ospina Pizano, Edicola edizioni 2020, traduzione di Amaranta Sbardella, pagg. 137
Ogni corpo è una storia. Ogni donna fa del suo corpo una storia, un racconto che esce da uno spazio intimo e nascosto e che però anela a manifestarsi, ad opporsi ad un convenzionalismo che schiaccia e appiattisce.
Nei sei racconti che formano la raccolta di María Ospina Pizano sono i corpi a narrare ciò che vivono le protagoniste che li abitano. Il corpo atletico di una ex guerrigliera pronta a ricominciare una nuova vita in città; i corpi morbosi e sfuggenti delle ragazze della scuola religiosa; il corpo divorato centimetro dopo centimetro dalle pulci; le torri di braccia, gambe, torsi e teste custodite con cura in un ospedale per bambole.
Nei corpi di queste donne e nelle relazioni che le legano avviene la lotta, la trasformazione, la conquista estenuante di uno spazio. I corpi diventano interpreti della quotidianità, voci che sussurrano istinti e paure, desideri e conflitti. Sullo sfondo di una Colombia focalizzata su Bogotà, con le sue montagne che “si alzavano altissime con l’integrità del loro verde scuro, sfiorandosi senza troppa logica, ma con grande attrazione“, sceglie María Ospina Pizano, dall’universo di relazioni femminili, le più asimmetriche e insolite, per raccontare sei storie di donne che intraprendono una ricerca ostinata e coraggiosa. Una geografia raffinata degli affetti, autentici e spietati, dove la cura e il senso di protezione si alternano all’ossessione e al tradimento, e dove il corpo femminile esige, e trova, nuove forme e nuove circostanze da raccontare.
Gli azzardi del corpo è una raccolta in cui i singoli racconti sono in qualche modo allacciati tra loro, poiché le sei protagoniste hanno quasi tutte un legame, a volte di sangue, a volte sono unite dal caso, come l’essere affezionate alla stessa cagnetta randagia; a volte ci sono piccoli indizi che le accomunano, e, più in generale, al di sopra di tutte le storie, c’è questo legame di forza e di resilienza dai connotati femminili.
Nel primo racconto c’è Marcela (ex nome da guerrigliera: Policarpa), che, scappata dalla giungla, cerca di reinserirsi nella società grazie ad un programma specifico; nella sua nuova vita, il corpo non riesce a ritrovare un equilibrio, non riesce ad abituarsi a portare le scarpe, né a fare a meno del canto degli uccelli tropicali che amava disegnare, e nemmeno a quanto è necessario mentire o nascondere particolari per potersi reintegrare. La vediamo piena di dubbi di fronte ad una redattrice che sta raccogliendo la sua testimonianza per farne un libro che aspiri alle classifiche di vendita e che continua a modificare, tagliare, deformare i suoi ricordi, fino a farli diventare un guscio vuoto, uno specchio in cui non si riconosce. Quando se ne era andata di casa, aveva lasciato la madre e le due sorelle; tornata a Bogotà sente forte il desiderio di mettersi in contatto con la sorella Zenaida.
Nel secondo, Occasione, c’è Zenaida, la sorella minore mai dimenticata, che lavora a servizio presso una famiglia ricca. Qui deve anche accudire la figlia, una bambina che esterna il suo disagio ingurgitando manciate di terra. I due corpi, quello di Zenaida e quello della bambina, tendono a un’opposta realizzazione. Il primo tende alla vita, il secondo alla morte.
Nel terzo, Salvezza di signorine, troviamo Aurora che spia dalla finestra le ragazzine del collegio di fronte e ne immagina i capezzoli sotto gli asciugamani e le camicette. Nella sua immaginazione, le signorine sono prigioniere in un luogo e in un destino da cui lei vorrebbe aiutarle a fuggire. Ma forse la salvezza cercata non è quella delle ragazzine, quanto la sua, e continuerà a cercarla prendendosi cura di una cagnolina.
Arriviamo al quarto, Fauna di ere, in cui la protagonista (senza nome) lotta contro le pulci che le hanno invaso la casa. Mentre perlustra il suo corpo per fare l’inventario dei morsi, pensa alle strategie da adottare per non soccombere. Qui il corpo è come una geografia di terre da esplorare e salvare.
Dal quinto – il mio preferito -, Collateral beauty, è tratta la folgorante citazione di apertura. La protagonista, Estefanía, ha ereditato dalla madre (e prima ancora dal nonno) un ospedale per bambole. In un vecchio laboratorio, bambole e peluches rovinati vengono riparati, e cassetti e stipi sono pieni di gambe, braccia, occhi spaiati: pezzi di ricambio per dare nuova vita alle bambole. E già qui possiamo capire la metafora che regge questa architettura. Estefanía è rimasta orfana ma ha ricevuto l’aiuto della zia Martica – protagonista anche dell’ultimo racconto – che lavora come estetista per una clientela selezionata di ricche signore. Un giorno riceve una richiesta da parte di un certo Antonio di New York che vuole acquistare le sue bambole, pezzi di ricambio compresi. Estefanía è attratta da questa persona con cui condivide un mondo collaterale piuttosto singolare, al tal punto da partire per New York.
L’ultimo racconto che dà il titolo alla raccolta, ha come protagonista l’anziana Mirla, che non riesce ad accettare che il suo corpo sia così cambiato e invecchiato, e che si affida alle cure estetiche di Martica (la zia di Estefanía). L’ostinata cura del corpo a cui si sottopone Mirla, con cerette, manicure e pedicure, è come un rito che dovrebbe rallentare una decadenza ormai senza ritorno a cui però non è facile arrendersi. E se Martica cura l’esteriorità, non può però intervenire sui seri problemi di salute di Mirla: il suo cuore non accetta la perdita dell’amore incarnato dall’uomo della sua vita. Mirla colleziona forbicine ma questa mania le sta prendendo la mano; sentendosi estranea a ciò che la circonda, ed essendo lontana dall’unico affetto a cui tiene – un nipote che ha aiutato a studiare e a trasferirsi a New York – decide di lasciare Bogotà e sale su una corriera per raggiungere la costa caraibica di Cartagena.
Voleva trovare forbici tra le più strane, che servissero a scopi inimmaginabili, a cose poco comuni. (..) Voleva forbici che non servissero più a nulla, che avessero perduto la loro funzione per l’assenza dell’oggetto corrispondente. (..) Il paio più recente, e che Mirla più apprezzava, l’aveva trovato senza troppe ricerche. Erano delle forbicine chirurgiche in acciaio inossidabile e dall’impugnatura lunga ma molto sottile, di quelle che si usano per la chirurgia profonda. (..) Era convinta che le forbicine avrebbero rimpiazzato le sue mani artritiche e le dita piccole e incurvate nella delicata azione di unire i polpastrelli per tirare e frizionare superfici o per sciogliere i nodi. (pag. 121)
I racconti poggiano su una realtà e su una città, Bogotà, stratificata socialmente, con forti disuguaglianze, che si percepiscono nei particolari che sembrano superflui (i giardini recintati delle case signorili, l’autista-guardia del corpo, il personale di servizio, il traffico soffocante ecc) e che invece sono delle spie del malessere sociale che spesso sfocia nella violenza. Quella urbana, che fa temere di essere rapinati per strada, e quella dei guerriglieri che ci viene raccontata nel primo segmento. Bogotà si presenta anche come città approdo o luogo da lasciare, un po’ come se “la vita fosse altrove”. Vi torna Marcela dopo il periodo passato nella boscaglia, e anche Aurora, di ritorno da New York. A New York vorrebbe andare Estefanía; sua cugina Shirley è già emigrata e lei sogna di raggiungerla. Anche Mirla vuole andarsene e sale su una corriera per Cartagena; suo nipote è già volato a New York per compiere gli studi e affrancarsi da una famiglia che non accetta la sua omosessualità.
Nella scrittura di Ospina Pizano c’è molta fisicità; una scrittura che mette in evidenza i corpi, che sono come delle antenne che captano ed emettono segnali; corpi definiti anche nei particolari intimi e nelle loro funzioni, che si palesano come interpreti, voci che svelano storie sul desiderio di incontrare gli altri.
I racconti, passando attraverso i corpi ed esponendoli ad una luce rivelatrice, mettono a nudo i luoghi scomodi della società, i rapporti di classe, le diseguaglianze della recente storia.
María Ospina Pizano è nata a Bogotá nel 1977. Insegna cinema e letteratura latinoamericana negli Stati Uniti. Si è occupata di critica culturale, approfondendo i temi della memoria, del territorio e della violenza. Gli azzardi del corpo, pubblicato in Colombia, Cile e negli Stati Uniti, è la sua prima raccolta di racconti.
Visto che ho già troppi libri in wishlist (chissà per colpa di chi), stavolta mi limito a farti i complimenti per la tua scrittura: le tue recensioni sono sempre dei veri e propri gioiellini, curati sino al minimo dettaglio. Leggerti è sempre un piacere :).
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