Sono le sette di sera e lui è seduto sul balcone di casa, al terzo piano. Guarda il giorno che muore e aspetta: chissà che cosa promette l’ultima luce, che cosa ha in serbo. (…) La notte è quasi trasparente. Una luce argentea, sottile e fredda, su tutta la Terra. Che non respira. I due cipressi sembrano scolpiti nel basalto,le colline lunari avvolte da una cera di luna. Qua e là rannicchiate delle creature nebulose, anch’esse lunari. Nelle vallate ombre su ombre. E un unico grillo che ho captato solo quando s’è taciuto.

Non dire notte, di Amos Oz, Feltrinelli editore Universale economica 2008, traduzione di Elena Loewenthal. Pagg. 200. Prima edizione dell’opera 1994.

Si respira subito l’aria del deserto, nelle prime pagine di questo libro. Cala la sera, e poi la notte e Theo la osserva, insonne, dal suo balcone. Lo sguardo si posa attorno e ciò che vede è pura presenza, l’immanente respiro della natura. Il vento trasporta gli odori del deserto, cenere e polvere. E Theo pensa che «Questo posto è per lui la fine del mondo. Non che ci stia male, alla fine del mondo. Ha ormai fatto quel che poteva fare, d’ora in poi aspetterà.» E l’attesa è un elemento palpabile, una presenza che aleggia sulla sua vita e si contrappone alla vitalità energica di sua moglie Noa.

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Siamo a Tel Kadar, una cittadina appostata al limitare del deserto del Negev, non lontano da Tel Aviv, e la narrazione si sviluppa in capitoli nei quali si alternano le voci dei due protagonisti: Theo, un uomo maturo, sessantenne, con alle spalle una vita di grandi successi nel suo lavoro di progettista, ora confinato in questa cittadina per volere di Noa, sua moglie, più giovane di quindici anni, insegnante di lettere nel liceo locale. Attraverso i dialoghi e l’espressione dei pensieri che i due protagonisti rimuginano, apprendiamo che il loro rapporto viaggia su una linea di confine tra la stanchezza – non priva di qualche recriminazione reciproca – e la dipendenza, o meglio, il sentirsi necessari l’uno all’altro. Theo è molto riflessivo, ha alle spalle praticamente già una vita vissuta e sembra anche un po’ disilluso, restio a intraprendere nuovi progetti – anche sul lavoro; ha un atteggiamento paternalistico nei confronti della moglie, o almeno, lei lo percepisce come tale e questa sensazione crea degli attriti tra loro. Noa è una persona che prende di petto ciò che le capita, è piena di slanci e anche idealista; da un lato si appoggia a Theo, vorrebbe che lui capisse quando lei necessita una sua più decisa presenza, ma dall’altro lo tiene a distanza, non vuole che prenda in mano le situazioni al suo posto. Un rapporto in cui c’è un continuo saliscendi di umori, un allontanarsi per poi riavvicinarsi perché ciò che appare chiaro dopo alcuni capitoli è quanto abbiano bisogno l’uno dell’altra, per completarsi, per sostenersi e per non arrendersi ad una vita che va in calando. E nel dipanarsi del racconto, alternando le due voci, conosciamo le loro vite prima di conoscersi, il loro passato e come si sono trovati.

Un giorno accade che uno studente adolescente di Noa viene trovato morto, probabilmente a causa della droga. Il padre del ragazzo chiede a Noa di creare un centro di riabilitazione per i ragazzi che sono incappati nel problema della droga. Noa era stata emotivamente colpita da quel ragazzo; anche se lo aveva appena sfiorato, non le erano sfuggite la sua tristezza e la sua solitudine. E, dopo la sua morte, si sente quasi colpevole di non essersi avvicinata a lui che le aveva lanciato qualche segnale di bisogno di aiuto. Insieme ad altre persone della cittadina, decide di prendere in carico questo progetto e crea un comitato ristretto con l’intento di trovare sostegno nella comunità. Le reazioni, però, sono estremamente negative e Noa trova una grande opposizione: la gente ha paura che il centro possa portare da Tel Aviv droga, delinquenza, malattie. La classica reazione del perbenismo che preferisce evitare qualsiasi cosa possa minacciare o anche solo impensierire la tranquilla vita di una cittadina sonnacchiosa. Gli eventi che accadono sono minimi, e sono attinenti alla volontà e agli sforzi messi in campo in favore di questo progetto dai protagonisti. Ma in questo romanzo ciò che conta non sono tanto gli eventi, ma l’impatto che essi hanno sui rapporti, in particolare su Theo e Noa. È un viaggio introspettivo nel delicato equilibrio tra ciò che i due coniugi vivono tra di loro: le prese di distanza e i riavvicinamenti, in un alternarsi continuo, nel modo in cui un amore maturo cerca di resistere, di risbocciare come un fiore primaverile minacciato dal gelo imprevisto. E dei compromessi a cui bisogna giungere, nell’amore e nella vita, perché si possa costruire, invece di distruggere. Ciò che avviene e i pensieri di Theo e Noa innescano anche domande sulla capacità di una comunità di vivere la tolleranza: con gli arabi, o con i “diversi” (il matto, il ragazzo con problemi); di praticare il rispetto verso gli altri e verso ciò che si ha intorno. E di essere tolleranti anche all’interno di un rapporto, nel sapere rispettare i tempi e i modi di ciascuno di affrontare la vita e i sentimenti.

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Infine, Oz ha la grande capacità di fare sentire il lettore lì, sul posto. La cittadina, un avamposto urbano razionale e funzionale, che si oppone al respiro del deserto, al vento e alla sabbia che la sferzano, alla luce del sole abbacinante e a quella della luna, fredda e tagliente che sfuma i contorni del deserto e delle colline in lontananza.

Questo è il deserto nelle notti d’estate: antico. Indifferente. Vitreo. Né morto né vivo. Presente.

Qui potete leggere il primo capitolo.

*Ezra Zussman