Il genio della Bastiglia di Jean Diwo

Recensione di Claudio Cherin

Con Il genio della Bastiglia dello scrittore francese Jean Diwo (18914-2012), proposto dall’editore 21 lettere, si giunge così alla parte conclusiva della saga dell’antica famiglia nata Cottion-Thirion ‒ divenuta, nel tempo, prima, de Valfroy, e, poi, Valfroy-Caumont, infine, Valfroy-Fradier (le cui vicissitudini sono state descritte nei primi due volumi Le dame del Faubourg e Il letto di acajou).

Il romanzo inizia con un Bertrand II ‒ ebanista e poeta riconosciuto e pubblicato, sponsorizzato da Geroge Sandal comando della fabbrica di mobili, che vede, nel frattempo, il mondo e i valori libertari francesi minacciati da Carlo X, la libertà concessa da Luigi Filippo d’Orleans, presto, però, messo in discussione dagli sconvolgimenti del 1848, che porteranno all’incoronazione di Luigi Napoleone Bonaparte.

Il genio della Bastiglia, come del resto anche Le dame del Faubourg e Il letto di acajou, evoca la storia di una famiglia, e quella di un quartiere: la comunità di Faubourg, che dalla fine della Guerra dei Cent’anni ospita gli ebanisti.

Bertrand II riconosce che, nella loro storia, un ruolo fondamentale l’hanno avuto le donne: perché hanno preso le decisioni, hanno gestito capitali, hanno fatto affari e si sono fatte carico delle responsabilità più importanti: le Badesse dell’Abbazia di Saint-Antoine (le vere dame del Faubourg a cui fa riferimento il titolo della saga).

A loro il quartiere-comunità di Faubourg deve speciali privilegi, fin dai tempi di Luigi XI. Infatti, questo sostegno è nato dalla lungimiranza, dalle intuizioni e dalla benevolenza delle Badesse dell’Abbazia di Saint-Antoine. Per questo, in quel quartiere ‘a parte’, gli abitanti non erano soggetti alle regole delle corporazioni, ma vivevano e lavoravano come liberi professionisti.

Non si deve dimenticare che i Cottion-Thirion rappresentano l’ascesa non solo di un mondo d’élite, quello del mobile pregiato, ma anche quello della borghesia francese, che ‒ tra il 1400 e il 1650 circa ‒ acquista un ruolo che surclassa la nobiltà, entrando appieno nel mondo del potere.  Un ruolo che non ha bisogno e non è alla ricerca di titoli nobiliari. Essere borghesi significava essere ‘uomini nuovi’; è il denaro, l’integrità morale e lavorativa a renderli migliori. (Cosa questa che continuerà fino a Bertrand e continuerà con i suoi figli).

Bertrand II si ritrova, all’inizio del 1800, a guardare quello che rimane non solo dell’Ancien Régime, ma anche dell’antica abbazia di Saint-Antoine-des-Champs, custode del Faubourg, che qualche anno prima, nel 1789, è stata distrutta dalla Rivoluzione.

In Bertrand II c’è il ricordo di Ethis, il ‘più giovane vincitore della Bastiglia’ ma anche di Antoinette, figlia del celebre ebanista Oeben, nuora del famoso Riesener, moglie del Bertrand I, che fa della sua casa un luogo d’incontro per discutere di arte e di politica.

Bertrand II, in ogni modo, rimane un ebanista artigiano. A lui spetta il compito di riflettere sulla modernità, ovvero su cosa significhi lavorare il legno e come farlo, in un momento in cui la tecnica dilaga in tutti i settori produttivi. Con malinconia si rivolge all’artigianato, come Ruskin o William Morris, e vi crede perché è l’unico mezzo contro l’industria, in cui la fredda ripetizione è algida perfezione.

Bertrand contrappone il valore dell’artigianato che ha al suo interno un’anima ‒ l’imperfezione ‒ oltre alla cura per i dettagli, ma soprattutto un’opera che, una volta finita, conserva l’umanità di chi l’ha costruita, perché ogni singolo pezzo porta l’impronta del suo costruttore.

Ma, nel 1877, il mondo sta cambiando, e gli eredi di Bertrand capiscono che i compratori, quelli che non sono necessariamente appartenenti ad un’élite culturale e nobiliare o borghese, devono poter accedere al loro lavoro. Devono abitare le loro case anche con i mobili degli ebanisti di Faubourg.  Così, quando Jean-Henri gli succede ‒ pur vivendo una vita breve segnata dalla Grande Guerra ‒ comprende come la meccanizzazione, tanto odiata da suo padre, sia l’unica possibilità di sopravvivere. Un mondo secolare di artigiani non può vivere nel passato, ma aprirsi alla produzione industriale di massa. (Anche se con amarezza).

Il libro si concentra molto sulla Storia. Gli avvenimenti che, come eco giungevano nel piccolo borgo, in questo libro diventano protagonisti. Molti dei maestri scendono in piazza, appoggiano i comuni cittadini. E le rivolte diventano vive, sotto gli occhi del lettore prendono vita e si dissolgono, e, per mezzo della penna vivida di Diwo,sono raccontate ‘in presa diretta’ (il pregio, forse, di questo terzo volume sta proprio nel racconto dettagliato di quest’epoca,  delle rivolte popolari e delle barricate improvvisate, che ricorda lo Scurati di Una storia romantica o alcuni parti de L’architettrice di Melania G. Mazzucco, ma anche l’Hervè Le Corre de L’ombra del fuoco).

I discendenti di Jean-Henri non possono, pur volendo, tornare indietro, perché vivono in un mondo che non ha posto per l’artigianato. Così gli ebanisti non posso far altro che adeguarsi ad un mondo che risorge dalle ceneri e della guerra. E ha bisogno di mobili comodi, semplici, adatti a un appartamento in città, con poche, essenziali decorazioni (sembra di sentire le parole di Alfred Loos).

Anche a causa della crisi economica nata dalla Grande Guerra, nel 1925, all’esposizione, i discendenti di Jean Henri decidono di lasciare la decorazione o lavori superflui per raggiungere il numero più alto di acquirenti, senza perdere mai il loro amore per il legno.

Protagonisti indiscussi sono quindi il legno ‒ con il suo profumo, con la sua segatura e i suoi trucioli ‒ e l’amore degli uomini per questo materiale. «Il legno infatti era come l’aria, il fuoco o l’acqua: un elemento vitale, un materiale carico di magia che la mano dell’artigiano rianimava, restituendo a quelle assi secche la libertà degli alberi nella luce del mattino», si legge nel primo volume.

Il legno è parte quasi del Dna di tutta la famiglia.

Al legno gli uomini dedicano tutto: passione, tempo, denaro, dedizioni, sacrifici. C’è qualcosa che li attira e gli fa immaginare qualcosa e dargli una forma.

No, questa non è la storia della decadenza di una famiglia e di un luogo in cui non ci si arrende; piuttosto, se necessario, si evolve, alle volte per necessità, altre per migliorare il proprio lavoro.

Ognuno dei molti personaggi-lavoratori (o dei figuranti, sono molti i personaggi, scelta cruciale dell’autore, per raccontare un mondo complesso come quello di un quartiere che si specializza nel costruire mobili) non può non affermare che ama «scolpire, scavare il legno per estrarne un fiore, una figura o una farfalla mi procura una gioia profonda. Mi sente il padrone di un reame da sogno», o «il legno è un materiale amabile. Non rovina le mani che lo lavorano con riguardo al contrario le rende morbide come il talco italiano», e che «la scultura non è altro che il legno che rimane una volta tolto il superfluo». Il legno è anche la chiave dell’esistenza, perché «le famiglie unite sono come grandi querce: saldamente abbarbicate alla vita come se nulla potesse impedire ai loro rami più vecchi di fare crescere all’infinito le prospere foglie verso la luce [quando] la morte arriva all’improvviso e sconvolge l’equilibrio si può continuare ad illudersi, a ripetersi che la famiglia va avanti, tuttavia l’albero che ricomincia a crescere è diverso, i nuovi rami per quanto incerti ne cambiano il destino».  

Chi vorrà trovare qui storie di lavoratori sfruttati, storie di determinismo sociale e ambientale, che spreme i lavoratori, o grandi e compatti scioperi rimarrà deluso. Non c’è nulla dell’analisi sociale e deterministica di Zola.  Gli operai amano e tramandano il proprio lavoro alle generazioni future. Con amore, saggezza e perseveranza.

Il genio della Bastiglia di Jean Diwo si rivela un intenso romanzo familiare e storico che prosegue la tradizione di Dumas e Victor Hugo (di cui si raccontano anche i funerali, ad un certo punto). Dettagliato e avvincente, Il genio della Bastiglia è un libro in cui ci s’immerge grazie ad uno stile vivace e diretto.

Il lettore, nella trilogia, ha modo di scoprire scene di vita quotidiana della Francia dal rinascimento agli anni venti del novecento, i rapporti tra politica e clero, le difficoltà del popolo, le simpatie e le antipatie fra nobili. I personaggi storici ‘raccontati’ in questa saga sono molti: Luigi XI, Luigi XIV, ma anche Caterina De Medici, Colbert e Voltaire; alti prelati come papa Urbano VIII e il cardinale di Toureno; artisti come Gianbologna, Vasari e Pinturicchio o ebanisti come André-Charles Boulle e Jean-Francois Oeben; ma ci sono anche molti borghesi, militari, imprenditori, rivoluzionari, il Re Sole e la sua corte, il Cardinale Richelieu, ma anche la regina Maria Antonietta fino ai rivoluzionari dei moti del anni 30 dell’Ottocento, l’ascesa e il declino di Luigi napoleone Bonaparte fino alla macchina del fango del caso Dreyfus (uno dei momenti dolenti della storia francese), supportato fortunatamente dall’acuto Emile Zola, con il suo J’ accuse.

A Jacopo Starace il merito di aver pensato una copertina semplice ma sofisticatissima che incuriosisce e affascina il lettore.

Un lettore, una volta entrato in questo libro mondo, non può che fare una cosa, per onorare lo scrittore: cercare nella propria casa cose fatte di e con il legno. Guardarle, toccarle. E se possibile andare in un bosco. Per sentire l’odore sottile del legno.