E io? Parlo, e scrivo, e sogno in italiano. Man mano che gli anni passano, mi sembra sempre più che le parole della lingua che per i nostri genitori è nostra siano granelli di sabbia che mi scivolano via dalle dita di una mano mentre, con le dita dell’altro, pesco le parole dell’italiano. (..) E così quei granelli scivolano via, quasi inavvertitamente, e ce ne sono sempre di meno. Che l’unica causa di quella riduzione sia il fatto che io e Braco non andiamo più in Bosnia? (pag 74)

La giraffa in sala d’attesa, di Božidar Stanišić, Bottega Errante edizioni 2019, traduzione di Alice Parmeggiani, pagg. 353

Il titolo, nella sua originalità e stranezza, riassume in maniera folgorante l’essenza della protagonista di questo prezioso romanzo. La giraffa è Valentina, la voce narrante e protagonista di questa storia che parla di sradicamento, di identità, di adattamento, di aspirazioni e di scrittura come unico rifugio per digerire quello che nella vita ci viene addosso. Giraffa è il soprannome che il fratello Braco le affibbia da adolescenti, per il suo collo lungo, una caratteristica che dapprima lei patisce, ma che col passare del tempo diventa il suo tratto distintivo più che apprezzabile. Valentina sembra in effetti essere in una sorta di sala d’attesa mentale, uno spazio in cui rimane sospesa tra le due sue identità, quella bosniaca d’origine della famiglia, e quella italiana, quella che forse più si sente addosso, pur qui e là incrinata da una origine che non può dimenticare, o che i genitori non vogliono venga dimenticata.

Quella lingua, che in Bosnia ciascuna delle tre etnie chiama con un proprio nome, fin dai primi giorni delle elementari in un altro paese, diventava per me sempre più difficile.

Ecco dunque uno dei temi del romanzo, quello della lacerazione. Il fatto di avere lasciato il paese d’origine da bambini e di essere cresciuti in un altro paese, rispetto ai genitori che invece il loro paese lo hanno lasciato forzatamente, a causa di una guerra devastante, diventa come un confine, che si cerca di aggirare per non dividersi ma che rimane pur sempre un elemento di discontinuità all’interno dei rapporti familiari. Discontinuità che Valentina cerca di limitare, appellandosi ad un’unità familiare basata sui valori di riferimento – la cultura, i libri – e sui vincoli affettivi.

Essere arrivati come profughi è una condizione che ha lasciato un segno su tutti; difficile per i genitori scollarsi di dosso questo attributo, un macigno che schiaccia, mentre per i figli è una parola a cui rimane legata l’immagine della caserma attrezzata a casa d’accoglienza, un orribile edificio con le stanze divise da lenzuola appese, freddo, umido, che rimane come un brutto ricordo incancellabile.

Bosnia

Crescendo, Valentina e Braco hanno reagito a questa situazione, come spesso accade, cercando una via per l’autoaffermazione, che sia il costruirsi una carriera e una solida reputazione nel campo della ricerca – Valentina – o che sia la ricerca del successo economico – Braco-, entrambi spingendo l’acceleratore al massimo, e cercando di scrollarsi di dosso la terribile sensazione che si prova quando gli altri ti guardano dall’alto in basso perché sei “un profugo”, una condizione dalla quale spesso molti non si aspettano che tu sia una persona capace e che vale tanto quanto gli altri.

La reazione dei genitori è invece pervasa dalla nostalgia e dal senso di perdita per quanto riguarda la mamma; si fonda invece su un risentimento politico da parte del padre, marxista, che ha visto dissolversi – insieme al suo paese – anche gli ideali di socialismo e di società multietnica.

Fino a ora non ho registrato che loro due non citavano mai i nomi dei signori della guerra, come qualcuno li ha chiamati, in Bosnia e in altre parti del paese che non c’è più sulla carta d’Europa. Né i loro nomi, né quelli dei loro più stretti collaboratori. «Appena penso a loro, mi viene subito da vomitare …» disse mia madre in un’occasione. Questo spiega tutto? Ma neppure Tito citavano, né il tempo dell’utopia comunista, come qualcuno la chiamava. «C’è stato, adesso è passato. Ha cercato di lasciarci in eredità un modo di vivere e di lavorare, ma gli eredi hanno litigato, in massa. Il testamento è spesso causa di estraniazione fra i parenti più prossimi…» disse mio padre in un’altra occasione. (pag. 261)

Il tema della lingua è centrale; esprimersi in una lingua nuova, pur padroneggiandola, è come una forzatura per i genitori, che invece cercano nella loro lingua d’origine quel salvagente che li tiene legati al loro passato. Diverso per i figli, che sono arrivati in Italia da piccoli, che qui sono andati a scuola e cresciuti, e che dunque in quella lingua di esprimono e si riconoscono; il ““, la Bosnia, per loro è un passato troppo remoto, di cui conservano pochi ricordi, verso cui non riescono a trovare un richiamo netto ed emotivo.

Valentina annota tutto su dei diari, trascrive i suoi pensieri, le sensazioni, i dialoghi, dando forma scritta al dipanarsi della sua vita; col suo costante e fattivo ricorso alla scrittura per annotare tutto ciò che le accade, mantiene in vita ciò che il passare del tempo potrebbe dissolvere, e allo stesso tempo, produce un continuo processo di auto analisi:

Se tu ti sforzi di dimenticare, il notes comunque ricorda mi sembrava più naturale e più onesto verso me stessa.

E questo è un altro dei temi che sottendono alla storia narrata: la scrittura come atto liberatorio, come testimonianza e come memoria; l’atto di scrivere come strumento di auto analisi. Lo preannuncia l’autore citando in esergo Carver – sia nella prima che nella seconda parte.

“Se ciò che scriviamo non può essere buono tanto quanto è in nostro potere, perché scriviamo allora?” Raymond Carver

Con questa citazione di Carver, Stanišić rafforza il valore della scrittura – al meglio delle proprie possibilità e lungi da pretese di protagonismo – come testimonianza, perché si può scrivere anche solo per se stessi, purché dietro questo atto ci sia onestà e desiderio di mettersi in gioco. E questa prospettiva si manifesta nei dubbi di Valentina – nella seconda parte -, che non si sente all’altezza di “un vero scrittore”, che dubita di sapere scrivere in modo convincente per gli altri, e che si domanda quale forma dare ai suoi scritti. Valentina appare incerta, sovrastata dai dubbi lungo tutto il romanzo e questo stato d’animo è reso nella scrittura dall’uso massiccio delle proposizioni interrogative.

Un altro aspetto distintivo del romanzo risultano essere le annotazioni apposte all’inizio di ciascun capitolo: una serie di anticipazioni – come delle “fotografie” – di ciò che leggeremo nel capitolo.

Un romanzo intenso, che si presenta come diario intimo, che mette al centro temi importanti ed estremamente attuali, raccontando la storia di una famiglia che, come tante, ha lasciato il proprio paese a causa di una sanguinosa guerra ed è arrivata tra le centinaia di profughi in Italia.

Bozidar-StanisicBožidar Stanišić è nato a Visoko, Bosnia, nel 1956. Si è laureato in filosofia. Ha insegnato fino al 1992 quando fugge dalla guerra civile in Bosnia rifiutandosi di indossare qualunque tipo di divisa. Arriva in Italia e trova la sua residenza a Zugliano dove si ferma con la famiglia e vive tuttora. Tra i suoi libri ricordiamo Primavera a Zugliano, Non-poesie, Metamorfosi di finestre;Tre racconti; Bon Voyage; Il cane alato e altri racconti; Piccolo, rosso e altri racconti. Alcuni suoi racconti, saggi e poesie sono tradotti in francese, inglese, sloveno, albanese, giapponese e cinese. Per Bottega Errante Edizioni ha pubblicato I buchi neri di Sarajevo nella collana “camera con vista”.

Qui potete leggere l’incipit.

Segnalo questa intervista per conoscere l’autore:

intervista a Božidar Stanišić

A proposito di Bosnia e di migrazioni, vi segnalo questi articoli che parlano di quello che sta accadendo oggi in Bosnia, dopo le ferite della guerra e sulle rotte dei nuovi migranti.

https://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2019/11/05/bosnia-migranti-rotta-balcanica-vujiak

In quattromila sul confine bosniaco con la Serbia, in ostaggio degli scontri di potere