Nomi pochi giorni dopo il mio ventesimo compleanno mi ha detto che avremmo dovuto seppellire il nostro piano, che non si sarebbe potuto, non potevamo tornare indietro, era un sogno d’infanzia, avevamo dato via il cuore e dentro ci si era annidato un desiderio vacuo, si sa, il tipico destino degli emigrati, risparmiare per il futuro e poi vivere infelici nel paese d’origine? no! Io avevo chiesto a Nomi se qui è felice, Nomi si era messa a ridere, noi siamo creature meticce e le creature meticce tendenzialmente sono più felici perché sono a casa in più mondi, si sentono a casa dove capita ma non sono obbligate a sentirsi a casa da nessuna parte. (pag. 131)

Come l’aria, di Melinda Nadj Abonji, Voland editore 2010, traduzione di Roberta Gado, pagg. 253

Ho scoperto questo libro durante le mie ricerche per il progetto di lettura di autori dell’area balcanica. L’autrice è infatti nata in Serbia, precisamente nella provincia autonoma della Voivodina, in una famiglia appartenente alla minoranza ungherese, ma è emigrata con la famiglia in Svizzera quando era una bambina. E questo romanzo – che non è strettamente autobiografico ma che si ispira alla storia personale della scrittrice – ripercorre la storia della sua famiglia e, in senso più ampio, quella di molte altre che come la sua hanno affrontato l’esperienza dell’emigrazione.

Come l’aria è un romanzo intenso e poetico, scritto con uno stile molto particolare; l’autrice usa la scrittura come flusso di coscienza, un discorso indiretto libero, senza distinzione grafica dei dialoghi, con un continuo rincorrersi tra pensieri e dialoghi. Un fiume che scorre impetuoso, che all’inizio può spiazzare il lettore, perché alcuni paragrafi danno quasi il fiatone, per stare dietro al filo della narrazione; superato però il momento iniziale, si riesce ad adattarsi a questo ritmo incalzante, perché l’autrice riesce a creare un equilibrio dato dall’alternanza tra fatti e riflessioni.

Il romanzo si sviluppa come un’altalena, che dondola tra presente e passato, accompagnando il lettore sulle rive del lago di Zurigo e, nel passato, nella campagna della Voivodina, da cui proviene la famiglia Kocsis, e dove, periodicamente, si torna per ritrovare gli affetti familiari, prima fra tutti l’amata nonna Mamika. Viaggi reali, e viaggi nella memoria, a ripescare dal passato dettagli, atmosfere, legami: e su tutto aleggia un sentimento  di nostalgia, nel senso etimologico del termine (il “dolore del ritorno”, il desiderio di tornare ad un luogo amato del passato), che rinforza il desiderio e la speranza di ritrovare immutato ciò che si è lasciato.

Spero che sia rimasto tutto come prima, perché quando torno al luogo della mia prima infanzia niente temo più del cambiamento: riconoscere gli oggetti eternamente uguali mi protegge dalla paura di ritrovarmi estranea in questo mondo, di essere esclusa dalla vita di Mamika, devo, il prima possibile, tornare in cortile per proseguire le mie ansiose ispezioni. (pag. 15)

La famiglia Kocsis – prima i genitori, poi le figlie – è emigrata in Svizzera in cerca di fortuna. Dopo vari lavori precari e tanti sacrifici affrontati sempre a testa alta e con la speranza di riuscire, hanno ottenuto la cittadinanza e rilevato una caffetteria. L’integrazione però è un processo difficile, che si inerpica su una dura salita sociale, tra diffidenze, pregiudizi e compromessi. Se i genitori sono disposti a subire tutto, tenendosi per sé i malumori e le frustrazioni pur di raggiungere una, seppur modesta, sicurezza economica, diversamente per le figlie l’integrazione appare più spinosa: le consapevolezze, il senso di ingiustizia e di precarietà, sono come dei macigni che rendono la strada malsicura. Il richiamo della terra dei nonni, dei suoi ritmi semplici, nell’idealizzazione tipica soprattutto dell’infanzia, tende ad offuscare la possibilità di integrarsi nella nuova realtà, di cui proprio le nuove generazioni percepiscono come una minaccia il velo di ipocrisia che copre l’apparente benevolenza. Sentirsi sempre messi alla prova, dovere essere sempre perfetti e omologati nei comportamenti, frena la libertà di espressione, impedisce di vivere appieno la crescita personale.

La voce di Ildikò, l’io narrante, si leva vibrante nel rifiuto di dovere essere quasi trasparente, come l’aria appunto, per non richiamare attenzione su di sé, per non sentirsi addosso lo sguardo critico di chi ti scruta in base ai suoi pregiudizi, di chi nemmeno sa esattamente da dove vieni e che retaggio culturale hai alle spalle, ma ti include in un calderone – “i popoli balcanici” – di cui nemmeno conosce la reale e variegata identità. Maggiormente allo scoppio delle guerre degli anni Novanta, momento già di per sé doloroso, quando si teme per il destino dei propri cari rimasti intrappolati in quello scenario, e che in Svizzera – come del resto negli altri paesi europei – si cerca di tenere alla larga dai propri pensieri.

Il tema dell’identità e dell’appartenenza sono l’asse centrale attorno a cui ruota il romanzo. Un tema che si manifesta nella mescolanza di lingue con cui i personaggi hanno un legame: l’ungherese dei familiari della Voivodina, che è anche dei genitori e delle figlie, è il legame con la terra d’origine; c’è poi il tedesco, faticoso ed estraneo per i genitori ma reso proprio dalle figlie – e non a caso il romanzo è scritto in tedesco -; c’è il serbocroato delle cameriere assunte in caffetteria e di Dalibor, il ragazzo serbo di Dubrovnik, profugo in Svizzera di cui Ildikò si innamora e con cui però parla in inglese.

Ci abbracciamo, ci sussurriamo poche parole all’orecchio, ci baciamo, per la prima volta, è bello che tu sia qui, un bacio plurilingue, mi sono innamorata di te, in ungherese, tedesco, serbocroato, inglese. (pag. 160)

L’appartenenza e l’identità nel romanzo non sono concetti astratti, passano attraverso i dettagli della vita di tutti i giorni che ne declinano i mille risvolti concreti: appartenenza data dalle proprie origini, legata alle tradizioni, ai cibi, al rapporto con la campagna e gli animali, agli oggetti-simbolo, come la bibita Traubisoda contrapposta all’occidentale Coca Cola. Passano anche attraverso il faticoso percorso di integrazione, reso arduo dalla xenofobia strisciante nella società; è la comunità locale che sancisce se accettare o no lo straniero e l’autrice/protagonista ce ne fornisce un esempio lacerante: la votazione per alzata di mano che stabilisce il diritto della famiglia Kocsis ad avere la cittadinanza (pagg.227-229).

La voce di Ildikò, a cui fa da sponda quella della sorella Nomi, offre al lettore tutta una galleria di personaggi resi vibranti dalla capacità di descrivere con emozione e precisione: su tutti spicca Mamika, la nonna, una presenza che per le sorelle è ancora più essenziale di quella materna, perché rappresenta il legame con il passato, di cui è portavoce, e con le proprie radici, trasmettendo, con racconti sul passato, valori e sentimenti.

Anche la natura su cui si posa lo sguardo di Ildikò è uno dei protagonisti: numerose sono le descrizioni della campagna della Voivodina in cui hanno vissuto l’infanzia, e attraversata durante i viaggi di ritorno. L’albero, ben radicato nel terreno, è il simbolo quasi totemico che richiama il senso di solidità e stanzialità. L’albero si carica spesso di un significante sentimentale, come i salici piangenti del viottolo sabbioso che Ildikò osserva durante l’incontro con la sorellastra Janka, un affetto che non hanno avuto la possibilità di vivere. E sempre l’albero è l’elemento naturale che spicca, insieme all’acqua del lago, nel panorama svizzero, come il castagno nudo, spogliato dal fogliame, che sembra quasi mostrare i pugni e che incita a lottare per i propri diritti.

Scrittrice e musicista, Melinda Nadj Abonji, è nata nel 1968 a Becsej, in Serbia, ma è cresciuta e vive in Svizzera. Nel 2004 è uscito il suo primo romanzo Im Schaufenster im Frühling (In vetrina a primavera), che ha ottenuto numerosi riconoscimenti. Nel 2010 ha ricevuto, prima nella storia, sia il Deutscher Buchpreis sia il Schweizer Buchpreis per Tauben fliegen auf, in italiano Come l’aria, con la motivazione di aver offerto il “ritratto di un’Europa in piena mutazione che non ha ancora chiuso i conti con il suo passato”. I diritti di traduzione del romanzo sono stati venduti in 16 paesi, tra cui Francia, Spagna, Svezia, Israele. Il suo ultimo romanzo è Schildkrötensoldat (Suhrkamp 2017).

Qui potete leggere l’incipit.

Vi segnalo questa illuminante intervista.