Ospito oggi una recensione a firma di Claudio Cherin (a fine post trovate una sua presentazione), che ringrazio per avere deciso di condividerla su questo blog. Claudio ci racconta il nuovo libro di Elisabetta Rasy.
Elisabetta Rasy, «Dio ci vuole felici. Etty Hillesum o della giovinezza», HarperCollins 2023, pp.160
Elisabetta Rasy, con il libro Dio ci vuole felici, si discosta dalla forma romanzo tradizionale. La scrittrice romana, infatti, attraverso una narrazione sospesa tra il saggio e il romanzo, riflette sulla vita, gli amori, le scelte di Etty Hillesum, la scrittrice olandese scomparsa a soli 29 anni ad Auschwitz dopo essere stata internata nel campo di transito olandese di Westerbork.
Elisabetta Rasy non si limita a raccontarne o romanzarne la vita, ma intreccia un fitto dialogo dove da una parte c’è «la ragazza Etty, nata molti anni prima e morta in modo atroce» e l’altra è la scrittrice stessa. Ma attenzione, c’è a ben vedere molto poco dell’autrice stessa. Elisabetta Rasy racconta e riflette sulla donna e sulla scrittrice che è stata e che è, oltrepassando l’autobiografia. Nell’io, in quell’io potente che emerge in più punti, l’autrice racconta la sua esperienza di donna, in cui molte sicuramente si riconosceranno. Per gradi, infatti, in Dio ci vuole felici Rasy effettua un processo di mimesi letteraria che la porta a proiettare la vita della giovane ebrea olandese sulla propria e a specchiarsi in lei. «Mi è sembrata l’amica perfetta, la maestra di giovinezza che avrei voluto avere vicino in quegli anni in cui bene o male si decide la forma che prenderà la vita», annota l’autrice.
Nodo della storia della donna e della scrittrice neerlandese è la scelta tragica di condividere la sorte del suo popolo, ed essere l’autrice, senza saperlo, di un caposaldo della letteratura mondiale del 900: il monumentale Diario, di quasi 797 pagine (tradotto parzialmente in Italia da Adelphi).

Pur avendone avuta più volte la possibilità di salvarsi ‒ l’ex amante Klaas Smelik, cercò di salvarla tentando addirittura di rapirla quando si trovava nel campo di smistamento ‒ Etty sceglie la sofferenza di una parte del mondo. Si sente in dovere di soffrire come le tante persone attorno a lei che mano mano spariscono. Sente il bisogno di aderire alla sofferenza dell’altro. Di sedersi accanto a coloro che una scelta non l’hanno avuta. E condividere con loro la sofferenza. E la morte.
Etty non è mai una vittima, ma una persona responsabile che sceglie. Perché «l’odio ferisce l’anima», e sul rifiuto dell’odio lei modella tutta se stessa e la difesa della propria giovinezza. Sceglie di non salvarsi. Di amare e di rispettare il popolo ebraico e rifiutare l’odio. È per la necessità di una vita che sappia mettere al bando l’odio in ogni sua forma che la scrittrice muore in un campo di sterminio.
Eppure Etty non è descritta come un’eroina. O una santa martire (se si può usare questo sintagma). È una donna, «questa passionale e turbolenta ventinovenne», è «una donna del Novecento, in cerca di un diverso modo di stare al mondo». Che si interroga sul senso del mondo, dell’esistenza e di ciò che vuole essere. Come per molte donne l’amore rappresentò per Etty «una discesa agli inferi per ritrovare non le anime dei trapassati ma la propria, seppellita dagli atavici obblighi di una buona creanza femminile». Infatti, la scrittrice olandese visse una complicata relazione con Julius Spier ‒ psicologo e chiromante, studioso di Jung ‒ oggi ricordato soprattutto per il suo rapporto con lei.
La ragione di questa tragica scelta si trova nelle lettere e nell’ultima parte del Diario dove, come annota Elisabetta Rasy, «si è in ascolto di un cuore, di un cuore pensante come Etty voleva essere ma soprattutto di un cuore con il suo correre, in cui le parole sono battiti». Per delinearne la fisionomia, il desiderio di emancipazione, l’assunzione di responsabilità, e la sua fede Elisabetta Rasy fa riferimenti ad altri personaggi reali o inventati (come la Micol bassaniana), in un discorso rapsodico e colto, di grande suggestione. Quel che appare chiaro è che per entrambe l’esistenza e la scrittura sono «un incessante interrogatorio sull’esistenza, su come affrontarla, su come essere».
Di Etty si racconta la prima giovinezza, l’irrequietezza riflessa in un tumulto perpetuo della mente e del corpo, la decisione di allontanarsi dalla casa dei genitori e lavorare come «studentessa governante» a casa di Pa Han, il rapporto con Klaas Smelik, l’incontro con Julius, la passione amorosa per lui. «Sono sicura che nei nostri vent’anni saremmo state amiche, abbiamo troppe cose in comune, amiche all’università nelle serate di chiacchiere sui grandi temi del mondo e sui grandissimi temi della incomprensibile intimità, oppure quando lei alloggia sulla Gabriel Met-sustraat: le avrei vivamente consigliato di rompere con Pa Han, di rimettersi con Klaas, un tipo davvero affascinante, un po’ progressista un po’ prepotente. Quanto a Spier no, non avrei saputo che dirle, delle passioni che si può dire, non c’è torto o ragione…».
Specchiandosi nella vita di quella «ragazza dai capelli e dall’anima arruffata», Rasy incrocia alcuni suoi ricordi con le memorie di letture e incontri, reali o solo letterari, con grandi personaggi della letteratura, come Virginia Woolf, come la Micòl Finzi Contini del romanzo di Bassani, o Edith Stein e Simone Weil. E sullo stesso cammino narrativo si incontrano personaggi meno noti come Charlotte Salomon, ebrea berlinese talentuosissima che, come l’immaginaria Micòl, si vide rifiutare un riconoscimento accademico per la sua origine.
Rasy racconta la forza della scrittrice, quando i divieti inducono e l’orrore si fa tangibile e sostiene che per «Etty la vita è e continua a essere fino alla fine grande e buona e attraente e eterna».
Con questo affascinante, quanto insolito escamotage narrativo, l’esistenza e la profonda spiritualità di una delle creature più misteriose della letteratura del secolo scorso vengono così raccontate fino a entrare nella mente e nelle scelte della scrittrice. Elisabetta Rasy ci permette di comprendere meglio non solo la storia, ma anche la scelta di una vita.
Elisabetta Rasy è una scrittrice e giornalista italiana. Studiosa di narrativa ottocentesca, è cofondatrice delle Edizioni delle Donne. Ha pubblicato saggi di letteratura al femminile: La lingua della nutrice (1978), Le donne e la letteratura (1984), Ritratti di signora (1995). Si è volta alla narrativa con La prima estasi (1985), opera di scrittura meditativa e introspettiva. Successivamente ha pubblicato Il finale della battaglia (1987), L’altra amante (1990), Mezzi di trasporto (1993), Posillipo (Rizzoli 1997), Tra noi due (Rizzoli 2002), La scienza degli addii (Rizzoli 2005) e Le disobbedienti (2019).
Claudio Cherin.
Mi definiscono un lettore onnivoro. Forse lo sono.
Sono nato nel 1991, vivo tra Trieste e Roma. Mi sono laureato in Lettere, a ventitré anni, con una tesi sul petrarchismo in Andrea Zanzotto. Dopo, ho studiato per due anni filosofia, a Padova.
Solo con Fleur, la mia compagna, ho compreso la bellezza spietata delle valli alpine di lingua tedesca. E come lì i fiori nascono con furia, per dissolversi con indomita indolenza. Scrivo di cinema su un blog e sulla rivista “I Diari del cineclub”.
Guardo con passione i film scandinavi. Alcune mie recensioni sono comparse su ‘Noi donne’. Mi piacerebbe entrare a far parte di un comitato di lettura di una casa editrice ed essere nella rubrica dell’ufficio stampa di una delle case editrici che leggo.
Benvenuto a Claudio, che spero di ritrovare su questo blog. Grazie a lui per questa recensione e alla “padrona di casa” per averlo ospitato.
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Grazie Benny. Claudio avrà un appuntamento più o meno mensile con noi, e ne siamo molto felici ☺️
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Bellissima recensione, non conoscevo questo libro e lo leggero’, mi ha incuriosita e colpita
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E Claudio è stato molto bravo nel raccontarlo mettendo in luce i tratti salienti.
Ciao Alessandra 😊
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