evelina-e-le-fate“Se pensiamo che le cose ci riguardano solo quando ci toccano, siamo tutti colpevoli”

Il domani ha bisogno di memoria per esistere

Ho toccato il tema della guerra, della Seconda Guerra mondiale nello specifico, nei post dedicati a “La storia” di Elsa Morante qui e “Il giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani qui. Romanzi che sono stati scritti più di cinquant’anni fa e che, tuttavia, continuano ad emozionarci perché la realtà ce li ripropone coniugati alla brutalità delle cronache di guerra che ogni giorno coinvolgono migliaia di esseri umani. Bisogna parlarne, della guerra: bisogna leggere le brutture che essa partorisce perché, forse, questo ci può dare la forza di respingerla nel più convinto e totale dei modi. Noi che siamo fortunati a leggerla, e non a viverla.

Voglio suggerire la lettura del romanzo “Evelina e le fate” di Simona Baldelli. Il romanzo è stato finalista al Premio Calvino nel 2012 ed è uscito nel 2013; ha vinto il premio “John Fante opera prima”.

È ambientato durante la Seconda Guerra mondiale nelle campagne delle Marche, regione da cui proviene l’autrice, e merita di essere letto perché la storia è narrata da un punto di vista speciale. La guerra ci viene raccontata attraverso gli occhi di una bambina di cinque anni che attraversa questi eventi sostenuta dall’amore della sua famiglia e dal coraggio che le infondono le sue amiche fate.

“Là, nella penombra dell’ingresso stava la Nera. Aveva gli occhi lucidi, due olive sotto sale, mori, più neri dello scialle e del vestito che portava e la faccia sempre scura che nessuno sapeva se avevano cominciato a chiamarla Nera per via del colore dell’abito o per quel grugno sempre serio. Quando c’era lei tutti si comportavano come si deve, niente risolini, scherzi o sciapate, perché ne avevano soggezione.” “La Scèpa era bionda, portava un vestitino leggero di cotone a fiorellini, e i capelli sciolti, che arrivavano poco sopra le spalle, le ballavano intorno alla faccia. La Scèpa era anche bellina però non aveva i denti davanti ed infatti quando rideva si copriva la faccia con la mano, perché si vergognava di quella bocca sdentata. Rideva, anche se non c’era niente da ridere e per quello la nonna, quando l’aveva vista la prima volta, si era domandata: «Co’ l’ha j’ avrà da rida ‘sta sciapena?» e allora avevano cominciato a chiamarla così, la Scèpa.”

Solo i bambini riescono a mischiare nei loro racconti fantasia, tenerezza, stupore, candore: anche quando sfiorano pericolosamente il baratro, sembrano non rendersene conto, non hanno ancora la conoscenza della vita per poterlo prefigurare e allora ci si avvicinano in punta di piedi e, se ne escono indenni, lo trasmettono secondo il loro punto di vista, spiazzandoci ed emozionandoci.

In queste pagine ho rivissuto i racconti dei miei genitori che vicende simili le hanno vissute in Garfagnana e nella campagna lucchese: l’esperienza comune di una generazione, di bambini e bambine, ragazzi e ragazze che, una volta divenuti adulti, a noi figli del tempo di pace, non hanno smesso di raccontarceli, proprio per convincerci della necessità di scongiurare la guerra. Così come la mamma di Simona Baldelli l’ha trasmesso a sua figlia.  Ho nel cuore due scene che mio padre mi ha raccontato delle sua personale esperienza e, come due fotogrammi indelebili, impressi nel mio cuore, mi accompagnano come moniti.

Il primo: la casa di mio nonno in Garfagnana era grande e soprattutto in una posizione strategica di controllo della valle, nel momento in cui, sulla linea Gotica, i tedeschi si ritiravano incalzati dai partigiani e dalle forze alleate che bombardavano continuamente i paesi e i boschi dell’alta Garfagnana. Così fu requisita dal comando tedesco che la usò come sua base; la famiglia di mio padre rimase nella casa. Un giorno, mio padre giocava sugli scalini davanti la casa mentre un aereo alleato si avvicinava e mitragliava. Fu preso al volo da un soldato tedesco diciannovenne, Franz, e trascinato al riparo. Gli salvò la vita.

Il secondo: mio nonno, tramite un passaggio nascosto nelle cantine, continuò ad aiutare i partigiani con informazioni, viveri, medicine. Fu scoperto e quando i tedeschi se ne andarono, lo portarono via, con altri compaesani. Finì a Bolzano, in un campo di raccolta di prigionieri; fu messo su un treno destinato ai campi di concentramento in Germania e si salvò miracolosamente perché il treno fu bombardato dagli alleati e lui, con altri, riuscì a scappare e a raggiungere le brigate partigiane, alle quali si unì per combattere.

“Evelina e le fate”. Leggetelo: per la storia, per la delicatezza dello sguardo ingenuo, per l’uso del dialetto che rende efficace l’ambientazione, per le descrizioni poetiche e per la crudezza della realtà della guerra che, quando ci arriva in faccia, è proprio tremenda, anche attraverso lo sguardo delicato di una bambina, anzi forse proprio per quello ferisce ancora di più.

Non dirò la trama, per lasciare il gusto della lettura a chi deciderà di farlo. Se volete leggere l’incipit, lo trovate nella sezione dedicata agli Incipit d’autore e qui.

Chiudo con un collegamento. Sempre legato al discorso della guerra. Sicuramente ne avete sentito parlare e lo avrete anche già letto, dato che è stato un best-seller. “Venuto al mondo”, della Mazzantini: sconvolgente nel finale, realistico nel contesto dell’occupazione di Sarajevo.

simona-baldelliL’autrice, la prima pagina.evelina-e-le-fate-incipit