Sono nata nell’albergo Metropole, una specie di seconda Casa dei Soviet con le stanze occupate da vecchi bolscevichi – tra cui il mio bisnonno Tato, membro dal 1889 del Partito operaio socialdemocratico russo.

La bambina dell’hotel Metropole, di Ljudmila Petruševskaja, Francesco Brioschi editore 2019, traduzione di Giulia Marcucci e Claudia Zonghetti

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Comincia così il commovente e lucido memoir di Petruševskaja; un diario completato nel 2017 – una dura prova emotiva per l’autrice, dimagrita ben quattordici chili per realizzarla – che ci conduce all’inizio della sua vita, che narra la sua infanzia e adolescenza. Una vita segnata da fame, freddo e stenti – pensate ad una bambina poverissima e figlia di “nemici del popolo” in epoca staliniana, negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale -, da continui trasferimenti da una casa all’altra, dove per casa si intende una stanzetta condivisa con almeno altre tre persone: “Migrare – parola della mia infanzia”.

Dai primi anni a Mosca, al lungo viaggio in treno nella steppa, al principio dell’inverno 1941, per raggiungere Kujbyšev (l’attuale Samara) e allontanarsi dal fronte. E poi il ritorno, dopo anni, a Mosca. La vita nei campi dei pionieri, dove i ragazzini venivano indottrinati; i soggiorni negli istituti per bambini denutriti, alla fine della guerra. La vita negli alloggi condivisi, tra povertà e diffidenza.

La sensazione di sollievo quando dal nulla, dal vuoto nero che hai dintorno, si sente lo sfregare di un fiammifero, una fiammella si accende e compaiono una tazza d’acqua bollente, un tozzo di pane, qualcosa da stendere per dormire e un cappotto per coprirsi è la sensazione che ho sempre provato ogni volta che ho dovuto trasferirmi.

L’autrice, senza cadere nel pietismo ma anzi sempre con un velo di lucida ironia, talvolta con sarcasmo, con uno stile vivace e diretto, e una scrittura densa, racconta le sue peripezie per sopravvivere e mantenere intatto l’universo variegato di affetti che è la sua larga famiglia. Una lotta continua contro tutto e tutti, aggrappandosi alla certezza di avere diritto a un briciolo di felicità.

Una famiglia incredibile, come solo quelle russe sanno esserlo (tranquilli, alla fine c’è anche un albero genealogico per orientarsi, che tra nomi, patronimici e soprannomi…)  a cominciare dall’adorato bisnonno Tato, il bolscevico che sosteneva i diritti degli oppressi, faceva il medico in fabbrica ma curava anche tutti i poveracci che si rivolgevano a lui (e che per ciò fu licenziato e costretto a esercitare solo dove dilagavano epidemie e peste);  e che dire di suo figlio, Vladimir Il’ič, “l’uomo del Volga”, che accettò nel partito l’allora quindicenne Majakovskij? Passando per sorelle e relativi mariti deportati o fucilati… E poi giù, al nonno Jakovlev  un famoso linguista che fondò il circolo linguistico di Mosca dove mosse i primi passi accademici Roman Jakobson, e che fu tra i fondatori della fonologia strutturale; parlava ben undici lingue e cominciò a traslitterare le lingue caucasiche in caratteri latini, creando circa settanta nuovi alfabeti…. Ma osò contraddire Stalin e finì in un ospedale psichiatrico.

Negli anni a Kujbyšev, la piccola rimane con la nonna  Valja – che sapeva ripetere a memoria i grandi romanzi russi – e la zia Vava, che aveva frequentato l’Accademia Militare ed era ingegnere. La mamma, avendo ricevuto l’ammissione all’Accademia di Arte Drammatica, se ne torna a Mosca, affidandola alle due donne. Questi sono anni in cui la piccola vive la peggiore fame, non ha vestiti, tantomeno scarpe (infatti d’inverno vive rinchiusa in casa), non va a scuola ma – nella bella stagione – vaga per strade e parchi, cercando un tozzo di pane e qualche spicciolo, azzuffandosi con gli altri bambini, e salvandosi miracolosamente da una sorte avversa. Anni in cui ai bambini non si badava molto, soprattutto se si viveva ai margini della società. Anni in cui Dolores/Ljudmila impara l’arte di stare al mondo con le sole proprie forze, impara a difendersi e a dubitare della generosità, diventa sempre più selvatica e non vuole rinunciare alla sua libertà.

Succede anche, però,  di non riuscire a sopportare un gesto inaudito di bontà nei nostri confronti. Non lo si regge. Qualcun altro ha detto che l’unico modo di sdebitarsi per una grandissima opera di bene è l’ingratitudine… Forse ci si scopre a pensare che niente si ripete, che può andare solo peggio e che la più grande felicità della vita – il ricordo del bene ricevuto – alla fine svanirà. Che nessuno ti accoglierà più a quel modo e che non ci saranno altri maglioni verdi.

 

Una autobiografia che si legge come un romanzo, perché la sua vita sembra davvero un romanzo, eppure è reale. Una bambina, divenuta una donna, con un carattere indomito, forgiato da una infanzia e adolescenza di quelle che se sopravvivi ne resti comunque segnata, a volte in senso negativo, altre uscendone fortificata. E questa bambina è riuscita a diventare una giornalista, drammaturga, autrice di romanzi e racconti, pittrice. Una strada in salita per molto tempo, e poi, finalmente, in discesa e con i riconoscimenti dovuti, fino ad arrivare a ricevere il più prestigioso riconoscimento letterario in Russia. In questo memoir Ljudmila Petruševskaja ha voluto trattenere tutti i ricordi della sua vita, i volti delle persone che l’hanno popolata con le loro esistenze; il potere ha tolto loro tutto ciò che avevano di materiale, gli ha tolto anche la vita in alcuni casi, ma la memoria di loro è rimasta viva tra queste pagine.

Alla fine del volume ci sono dei racconti che si rifanno ad alcuni episodi della sua vita, altri scampoli di memoria significativi.

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Qui potete leggere l’incipit.

A proposito di hotel Metropole, vi segnalo questo articolo che ripercorre la galleria di personaggi che vi sono transitati…..