Il sole bruciava la vegetazione e scintille di luce vogavano sull’acqua purpurea. La tramontana piegava l’erba alta e Jonas rabbrividì, rianimato dalla salinità dell’aria. (..) ripensava alla sua infanzia, all’odore di catrame delle strade di Sète sotto il sole estivo. I primi pride, seguiti all’appello dei comitati d’emergenza antirepressione omosessuale, e il sollievo di poter dire finalmente ciò che sentiva di essere. La certezza di un’appartenenza a una comunità che, seppur inaccessibile, esisteva di fatto. L’ondeggiare della luce nell’abitacolo dell’auto, lungo l’autostrada, le rare volte che partivano per le vacanze. (..) Il lampo blu di una vena sulla fronte di Armand quando si arrabbiava. (..) La pelle umida di Louise, quel profumo di sudore e di crema per il corpo quando lo prendeva tra le braccia. (..) Una siesta da cui lo svegliano i giochi di Albin e Fanny. Serate sui tetti delle pensiline degli autobus, sotto la volta del cielo immensa, tra il puzzo dolciastro dell’olio nel carburatore dei motorini che si raffreddano più in basso. (..) Quei ricordi formavano un caleidoscopio in continuo divenire in cui Jonas contemplava una chiara visione di se stesso.
Il sale, di Jean-Baptiste Del Amo, Neo Edizioni 2013, ed. originale 2010, traduzione di Sabrina Campolongo
Questo romanzo, pubblicato nel 2013 per i tipi di Neo Edizioni, è balzato all’attenzione dei lettori in questi giorni, grazie al consenso ottenuto nell’ambito dell’iniziativa Modus legendi, di cui ho già avuto occasione di parlare in questo post.
Le pagine del romanzo sono tutte concentrate su una giornata e sullo scorrere delle sue ore, dal mattino fino alla serata, in cui una cena di famiglia, voluta dalla madre, ha lo scopo di riunire attorno al tavolo la famiglia, cioè i figli di lei, accompagnati dai loro figli e compagni, nell’assenza del padre.
L’occasione della cena e del tempo che trascorre prima di essa – atteso, temuto, desiderato e al tempo stesso osteggiato – sono il pretesto per i protagonisti di ripensare alle loro vite e ai motivi e fatti che le hanno influenzate e caratterizzate; un’indagine intimistica e sofferta che ciascuno dei membri della famiglia conduce su se stesso in relazione agli altri e al passato.
Il nucleo familiare è composto dalla madre Louise, il padre Armand ormai defunto, i tre figli Albin, Fanny e Jonas e i rispettivi consorti, compagno e figli. L’idea di questa cena è della madre, che vuole in questo modo riunirli nella casa di famiglia che ormai da tempo è vuota delle loro presenze.
Sullo sfondo, la città di Sète, in Occitania, al centro del Golfo del Leone. Un città di mare, sede del secondo porto francese più importante nel Mediterraneo, meta di una forte immigrazione italiana e corsa; la città dominata dal monte Saint-Clair, è caratterizzata da canali attraversati da ponti, vecchi palazzi, e con alle spalle lo Stagno di Thau, oasi naturalistica e sede di numerosi allevamenti di frutti di mare, per cui Sète è famosa. La pesca è da tempo l’attività principale, affiancata da tutto l’indotto che le attiene.
E pescatore, nonché di origine italiana è il padre Armand, figura che ha giocato un ruolo negativo e opprimente su tutti i membri della famiglia.
La città è una presenza viva, un luogo familiare che gioca un ruolo evocativo e rassicurante per Albin e Jonas, che attorno ad alcuni dei suoi luoghi hanno costruito un legame vitale; angosciante per Fanny, che da Sète è fuggita, cercando in quella lontananza fisica dal luogo, l’allontanamento dalla sua famiglia, dal padre ma soprattutto dalla madre, da cui non si è mai sentita amata abbastanza.
Armand le aveva raccontato che all’inizio del secolo, sulla via della Corniche, c’erano montagne di sale di cui era impossibile, sotto il sole estivo, sostenere lo splendore. Accecavano lo sguardo. (..) La città che aveva eretto in sogno non era la stessa Sète a cui tornava ora: una città più che reale, che avrebbe steso per sempre un’ombra insostenibile sulla sua vita. Se Fanny abbassava gli occhi per strada, se non poteva sostenerla con lo sguardo, era perché Sète l’accecava ancora, non per il suo splendore, (..) ma per i drammi e le rinunce a cui l’aveva obbligata.
La città è luogo imprescindibile dalle vite di Louise e Armand, così compenetrata in esse, da divenirne sostanza specifica: così come il sale, la salsedine che tutto ricopre e allo stesso tempo corrode. È la metafora della loro unione: un legame logorante, che col passare degli anni, li ha sfibrati e resi estranei. È l’ambiente duro, il mare al largo, la pesca, con cui Armand si è confrontato, prendendolo a metro di valutazione delle persone e della loro capacità di imporsi sulla vita.
L’impianto del romanzo, diviso in tre parti che portano – in modo significativo – il nome delle Parche, è basato sull’alternarsi di capitoli, ciascuno dei quali è narrato con la voce di un protagonista, in una continua rotazione; un avvicendamento ciclico di ricordi e stati d’animo che, attraverso i flash back, permettono al lettore di scandagliare le vite tormentate di ciascuno di loro. Un percorso della memoria, singola e collettiva della famiglia, che rivela, attraverso una serie di epifanie e di visioni del passato, i nodi che l’hanno disgregata. Una storia familiare specifica che però assume connotati universali, indagata attraverso una matrice freudiana, i cui due poli sono la morte e la sessualità, declinati nelle varianti che ciascuna delle vite è riuscita ad esprimere, ma riconducibili ad un unico archetipo.
Jonas, il figlio minore, ha vissuto una vita travagliata fin dall’infanzia; l’amore quasi ossessivo della madre che ne intuiva la delicatezza, non è bastato a compensare il duro atteggiamento del padre che non ha mai accettato la sua omosessualità; la sua vita è stata duramente segnata dalla malattia e dalla perdita del precedente compagno e la presenza al suo fianco dell’attuale, non basta a disperdere tutti i fantasmi del passato.
Fanny vive come un’ombra la sua esistenza: la morte della figlia le ha creato come una bolla intorno, isolandola dal marito e dal figlio; conduce una vita in cui si sente estranea a tutto e nella quale non riesce a trovare lo stimolo per rimettersi in gioco.
Albin è cresciuto all’ombra del padre, del quale ha provato in ogni modo a seguire lo stile di vita, riconoscendosi solo dopo avere capito quanto distanti fossero. Pur consapevole delle colpe del padre, ne è stato, suo malgrado, forgiato a tal punto da ripercorrerne inconsciamente i comportamenti, e mettendo a rischio il suo matrimonio.
Albin si rasò la barba e si osservò nello specchio. Vide il riflesso di suo padre, così come l’aveva visto durante l’infanzia: un uomo asciutto, dal viso rigoroso, seccato dalla salsedine. A questi tratti si sovrapponevano quelli del moribondo che avevano vegliato fino alla fine. (..) Albin si vedeva in quello specchio come la promessa di essere, un giorno, a immagine di quel corpo decaduto.
Louise, madre e sposa, si è sottomessa agli umori del marito, ai suoi scatti di violenza e alle sue assenze, cercando di proteggere i figli, non capendo che ai loro occhi, giorno dopo giorno, è divenuta sua complice, e non è bastato il suo modo di esprimere l’amore verso di loro a mantenere saldo il loro legame. Louise, nonostante i momenti difficili nella relazione col marito, gli è rimasta legata in modo indissolubile, e continua ad esserlo anche dopo la sua morte.
Pensava ad Armand senza pensarci veramente; gli scomparsi ci abitano senza fine. Non sono un’immagine ma un’impronta indelebile; un velo tra noi stessi e il mondo, che lo colora, a suo modo, di un’aspra malinconia. Ormai niente le arrivava, nessuna immagine, nessun suono, nessun sentimento, senza essere impastato del ricordo di Armand.
Su tutti aleggia la figura di Armand, padre padrone, cresciuto a sua volta dominato dalla figura del patriarca, l’italiano fuggito dalla patria in guerra e rifugiatosi in Francia. È solo verso la fine del romanzo che il passato di Armand emerge in tutta la sua crudezza e drammaticità, dando un senso a ciò che egli è divenuto da adulto. Il suo fallimento come padre e marito ha radici lontane e getta una tragica ipoteca sulle vite dei suoi figli e nipoti, in una sorta di archetipo che travolge e trapassa le generazioni.
La loro famiglia era come un fiume dalle anse imprendibili: non era possibile circoscriverne la verità, se non nel punto in cui la memoria di ognuno di loro affluiva per gettarsi, unita, nel mare.(..) Il loro passato è simile alle acque profonde in cui il giorno non penetra mai, dove l’inchiostro dei polpi addensa le tenebre. Vi avanzano ciechi quando un raggio di luce spezza la notte, illumina per lo spazio di un istante un’immagine, una scena di cui ritrovano i contorni.
La costruzione del romanzo attorno al potere della memoria ne amplifica la tensione, tenendo il lettore saldamente attaccato alle pagine; l’autore, con la sua scrittura densa e ricca, riesce a creare come una galleria di immagini, descritte ed esplorate nei dettagli, con intensità e profondità poderose, costruendo la storia come si fa con una casa, mattone dopo mattone, fino ad arrivare alla sua sommità, con un uso potente della lingua, che riesce sempre a sostenere l’universo interiore dei personaggi che dalla pagina escono in tutta la loro autenticità.
Anche le descrizioni del paesaggio – ambiente fisico e materiale che riflette l’interiorità dei personaggi – sono costruite con grande maestria e riescono a trascinare il lettore al loro interno, dando l’impressione di vedere con gli occhi quelle immagini che stanno sulla pagina.
Costeggiava il pascolo nei pressi di Bouzigues. Lo stagno ai suoi piedi gettava sulla terra il suo blu metallico, il suo biancore opalino catturato dalla luce del mattino. Il nero delle tavole di allevamento di ostriche e cozze interrompeva l’alba luminescente sulla superficie dell’acqua, e il riflesso delle piantane erette al di là disseminava l’onda di miraggi e d’ombre. Lo stagno non è mai così maestoso quanto all’alba e al crepuscolo. Con indifferenza, si sfuma e rosseggia, eclissa l’impronta degli uomini, sublima ovunque il loro marchio.
Jean-Baptiste Del Amo (al secolo Jean-Baptiste Garcia) è nato a Tolosa nel 1981. È stato paragonato a scrittori del calibro di Émile Zola, Honoré de Balzac, Alexandre Dumas, Patrick Süskind e Gustave Flaubert. Con le sue opere, nel 2006, è stato premiato come miglior “Giovane scrittore” di Francia; nel 2008 è stato finalista del Premio Goncourt e del Prix Médicis, al vertice di importanza tra i riconoscimenti letterari francesi. Tutti i suoi libri in Francia sono pubblicati da Gallimard. Il Sale è la sua prima opera tradotta in Italia.
i morti…spesso la loro presenza è talmente ingombrante da condizionare ancora i vivi…bella recensone, credo proprio che leggerò questo libro…buona giornata carissima
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grazie, buona giornata anche a te!
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L’importanza, a un certo momento, se possibile in tempo, di non essere più solo “figli”, di capire, e raggiungere.
Molto interessante.
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e non è facile….
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Non lo è
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