Più tardi l’autista li lasciò all’indirizzo del ponte che Rosa aveva varcato il giorno prima. Aveva smesso di piovere. Paul si appoggiò un attimo alla ringhiera di fronte alle montagne del Nord: blu scuro su fondo grigio, lanciavano grandi salve di vapore verso la volta invisibile. Alle loro spalle passava una folla numerosa di giovani a passeggio, turisti, uomini e donne ordinari impegnati in un’esistenza che Rosa trovava inaccessibile e crudele. Una maiko con lo sguardo serio e l’aria austera li sorpassò. «Il ponte di Sanjo frantuma sempre il mio cuore» disse Paul seguendola con gli occhi. (pag. 75)

Una rosa sola, di Muriel Barbery, Edizioni E/O 2021, traduzione di Alberto Bracci Testasecca, pagg. 173

Rosa è nata in Francia da una madre che ha avuto una breve relazione con un uomo giapponese, durante un viaggio in Giappone; non ha mai incontrato né parlato con suo padre, ha trascorso la sua vita con la madre e la nonna, a cui era molto legata e che, dopo la morte, le manca moltissimo. Rosa è una giovane donna sprofondata in una cupa malinconia, vive a Parigi, è una botanica ma sebbene conosca i fiori, essi non sembrano suscitarle alcuna emozione, né passione. Anche con gli uomini è così, passa da uno all’altro, in relazioni brevissime, senza sentimenti, senza interesse. Sembra come avvolta da una cappa di tristezza che rende incolore la sua vita, così come spegne i colori dei fiori che studia e osserva senza vederli. L’assenza del padre, la sua identità in bilico tra due mondi lontanissimi, tra due persone che non le hanno regalato amore, la rendono incapace di definirsi, di trovare una collocazione.

«Lei è botanica e non guarda i fiori» disse alla fine. Nella sua voce non c’era aggressività né giudizio. «La mia poesia preferita è di Issa» continuò. La recitò in giapponese, poi la tradusse:

in questo mondo camminiamo

sul tetto dell’inferno

guardando i fiori

Un giorno riceve un messaggio e un biglietto aereo per Kyoto, la città dai mille templi, dove suo padre – un ricco mercante d’arte – apprende, è appena morto. Lì è attesa da un esecutore testamentario di nome Paul, un belga che da decenni vive e lavora in Giappone, che la accoglie nella casa del padre e la accompagna nelle visite alla città. Inizia così per Rosa il viaggio verso una rinascita tanto inaspettata quanto improbabile, nel mondo, e in se stessa. 

Kyoto, Nanzen-ji (fonte: getyourguide.it)

Ricchi di parole finemente strutturate, i capitoli si aprono e si chiudono con brevi racconti orientali che guidano il viaggio di Rosa, che in un primo momento sembra non trovare alcun significato in ciò che le sta accadendo. La giovane donna, naviga dal tempio buddista al giardino zen, fuggendo dalle brutture di certi luoghi di Kyōto, secondo una messa in scena voluta dal padre, guidata dal misterioso Paul. Dai fiori alle pietre, dalla mineralità all’ebbrezza, progredisce passo dopo passo, senza sapere verso cosa o verso chi.

Rosa non vedeva altro. Tutto intorno c’era una scena vegetale, brezza tra gli alberi, cespugli arrotondati, ma l’intera sua vita, i suoi anni e le sue ore stavano nelle linee curve che il rastrello aveva tracciato intorno a una grande pietra, a un’azalea e a un ciuffo di hosta posate su una sabbia così fine che incipriava lo sguardo. Da quella ellisse perfetta nasceva l’universo. La mente di Rosa danzava con la sabbia, ne sposava i solchi, girava intorno alla pietra e alle foglie e ricominciava. Non esisteva altro che quella passeggiata senza fine sull’anello dei giorni e del senso. (pag. 42)

Kyoto, Nanzen-ji, giardino zen

Muriel Barbery ci conduce nella sua scia sulle tracce fluttuanti dell’assente, per portare alla luce la bellezza che è legata a dettagli improbabili. Rosa scopre così in parallelo suo padre e il mondo di suo padre, le persone che lo hanno conosciuto, che hanno avuto un peso nella sua vita, e si rende conto che lui non l’ha mai veramente lasciata, ma che l’ha seguita a distanza come un kami, uno spirito. Nella casa del padre, dove soggiorna accudita dalla governante Sayoko che per quarant’anni si è presa cura di lui, Rosa scopre le foto che la ritraggono nel corso degli anni, da quando era bambina al presente, scattate in occasioni di diversa natura, momenti della sua vita che il padre seguiva a distanza.

Su una di esse si vedeva una bambina dai capelli rossi in un giardino estivo. Sullo sfondo grandi lillà bianchi mascheravano un muro di pietra a secco. (..) Rosa guardò l’insieme delle fotografie e dopo un po’ capì che quella era l’unica a non essere stata rubata. Tutte le altre erano state scattate con il teleobiettivo a sua insaputa, da angolature diverse, in tutte le stagioni. (..) Osservò il pannello. Le fotografie la mostravano a tuute le età con la nonna Paule, con le amiche, gli amichetti, gli amanti. Si inginocchiò sul tatami e chinò la testa come una penitente. Il vedersi curva e supplicante le ravvivò la collera. (Pag. 45)

Paul la conduce attraverso un programma di visite ai templi, la porta a pranzo e a cena in ristoranti, cerca da un lato di farle conoscere chi era suo padre attraverso i luoghi e i ricordi, dall’altro di farla entrare in sintonia con l’ambiente, le tradizioni; durante queste uscite, Rosa incontra personaggi che gradualmente la circondano, intrecciandosi in un puzzle minerale e vegetale, fino a rivelare un dipinto che si incarna solo all’ultimo momento. Attraverso le parole del poeta-vasaio Keisuke che incontra insieme a Paul, Rosa deve mettersi alla prova, deve guardare dentro e attraverso se stessa. Anche l’incontro con la donna inglese Beth Scott, che vive in Giappone da molti anni, si dimostra rivelatorio.

Paul è all’inizio un uomo difficile da decifrare, il suo atteggiamento con Rosa sembra distaccato e infatti Rosa non è a suo agio con lui; in realtà non è a suo agio con tutta la situazione, «questo paese mi sta uccidendo» sbotta ad un certo punto. Si sente come un pacco postale che viaggia attraverso un percorso prestabilito, e vede in Paul “il tirapiedi di un morto”, e in questa fredda antipatia è piuttosto corrisposta da lui. Rosa è spesso sulla difensiva, è arrabbiata, sarcastica; tra di loro il dialogo è spesso un botta e risposta pungente.

Man mano che il romanzo avanza, si svela il doloroso passato di Paul e Rosa inizia a guardarlo con occhi diversi e a volere approfondire ciò che li lega.

La scrittura di Muriel Barbery attrae il lettore tanto quanto i suoi personaggi. Con uno stile molto nipponico, in un bilanciamento continuo tra fini e incidenti descrizioni e momenti di introspezione, ci si addentra nella raffinatezza dell’arte di vivere giapponese. Il racconto si snoda attraverso un susseguirsi di capitoli, come una cerimonia del tè, i suoi riti, il suo ritmo impassibile. Un’architettura verbale che ci immerge in un immaginario allo stesso tempo divertente, inquietante e dolcissimo.

«La vita è trasformazione. Questi giardini sono malinconia trasformata in gioia, dolore mutato in piacere. Ciò che lei sta guardando qui è l’inferno divenuto bellezza».

«Nessuno vive in un giardino zen» replicò lei.

Come ne L’eleganza del riccio la trasformazione di Renée si compie portando in scena Kakuro Ozu, un inquilino giapponese amabile, raffinato e colto, con quale poteva condividere la sua passione per la letteratura e la filosofia, anche in questo nuovo romanzo ambientato a Kyōto (città dove l’autrice ha vissuto due anni), la cultura e la filosofia giapponese sono la chiave per aprire la porta dell’animo della protagonista, rendendo possibile, attraverso il percorso che il padre le ha predisposto, una rinascita. Seguendo la struttura di un rituale, intriso di una sensualità sobria, il racconto iniziatico di questa donna sradicata trascende il romanticismo convenzionale a favore di una celebrazione della vita e della forza della natura.

Muriel Barbery